30 Dicembre 2016
Il Foglio
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
I voucher non sono lo sterco del demonio. Forse qualcuno ne ha abusato: e allora può essere opportuno rivedere alcune regole del loro funzionamento. Ma da qui a cancellarli ce ne passa; e un oceano ancora più vasto separa la questione specifica dei buoni lavoro da quella più generale della riforma del mercato del lavoro e del Jobs Act.
Per fare un po’ di ordine, bisogna anzitutto capire cosa sono i buoni lavoro, perché sono stati introdotti e quali risultati hanno ottenuto. I voucher, come ha ricostruito Filippo Taddei in un recente intervento sull’Unità, sono nati formalmente con la legge del 2003 ma hanno trovato la prima applicazione concreta solo nel 2008 (governo Prodi) per il settore dell’agricoltura; il loro impiego è stato più volte ampliato negli anni successivi (governo Berlusconi), fino a essere sostanzialmente liberalizzato dal governo Monti nel 2012, con un tetto di 5.000 euro per lavoratore e 2.000 euro per imprese o professionisti. Un ulteriore allargamento c’è stato col governo Letta, che ha eliminato il requisito dell’occasionalità delle prestazioni. Il governo Renzi vi ha messo mano dando un colpo al cerchio (l’aumento della soglia da 5.000 a 7.000 euro per lavoratore, ferma restando quella di 2.000 euro per imprese e professionisti) e due colpi alla botte (l’obbligo di registrazione online prima dell’uso, e il divieto di utilizzo negli appalti).
Primo punto fermo: la storia politica dei voucher è una storia bipartisan, che vede progressivamente allargarsi le loro condizioni di utilizzo, con l’unica eccezione dei requisiti di tracciabilità in vigore da pochi mesi. La ragione di una simile (e rara) storia di continuità tra governi e coalizioni va cercata nella motivazione fondamentale per cui il buono lavoro esiste: dare ai datori di lavoro uno strumento flessibile e semplice per regolarizzare prestazioni che, verosimilmente, in buona parte sarebbero altrimenti state in nero. Tuttavia, come ogni strumento, anche i voucher possono essere stati impiegati in modo opportunistico, forzando o ignorando regole e limiti. Una prima risposta viene proprio dall’obbligo di registrazione del buono almeno 60 minuti prima dell’utilizzo, con indicazione delle parti coinvolte e dell’ora e luogo in cui avverrà la prestazione. La tracciabilità svolge una duplice funzione: scoraggiare un impiego troppo disinvolto dei buoni, e garantire un flusso di informazioni più preciso e granulare. Se fosse provato che in alcuni casi (o in alcuni settori) i buoni sono effettivamente diventati un’alternativa a contratti più stabili, allora può aver senso correggere il tiro: per esempio escludendo taluni comparti (come l’edilizia), come ha argomentato il presidente dell’Anpal, Maurizio Del Conte, in un’intervista al Corriere della Sera.
Questo ci porta al secondo punto fermo: oggi non è possibile esprimere un giudizio definitivo sull’esperienza dei voucher, in quanto solo a gennaio cominceranno a essere disponibili tutte le informazioni necessarie. Nell’attesa di evidenza conclusiva sui loro effetti, i dati esistenti suggeriscono che, per quanto dei voucher si possa essere abusato, tendenzialmente hanno svolto dignitosamente la missione che gli era stata affidata. Uno studio condotto per l’Inps da Bruno Anastasia, Saverio Bombelli e Stefania Maschio dice che, nel periodo 2008-2015, quasi il 40 per cento dei committenti ha acquistato meno di 30 voucher (per un controvalore di poco inferiore ai 300 euro); la mediana di voucher acquistati è pari a 50. Solo lo 0,2 per cento dei committenti ha acquistato un numero di buoni molto rilevante (superiore a 10 mila). Se guardiamo all’universo dei percettori, nel 2015 il 55 per cento era classificato come attivo, ossia titolare di altri contratti o, in misura minore, beneficiario degli ammortizzatori sociali; l’8 per cento era pensionato; il 23 per cento era “silente” (cioè aveva avuto una posizione assicurativa attiva negli anni precedenti); e il restante 14 per cento era privo di posizione, e partecipava al mercato del lavoro esclusivamente attraverso i voucher. Il numero mediano di voucher riscossi dal singolo lavoratore era pari a 29, per un reddito inferiore a 217,50 euro netti.
Il terzo punto fermo è dunque che la larga maggioranza dei percettori di voucher (quanto meno gli attivi e i pensionati) non trova nel voucher il proprio reddito, ma un sostegno al reddito: molto probabilmente, svolge in modo regolare un “secondo lavoro” che, in uno scenario controfattuale, sarebbe stato in nero.
C’è un ultimo aspetto, relativo all’illusione ottica che in questi giorni si sta generando. Tutti hanno puntato il dito contro il boom dei voucher, che nei primi nove mesi del 2016 hanno totalizzato 109,5 milioni di pezzi, in crescita del 34,6 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tuttavia, questo rappresenta solo una piccola frazione del totale delle ore lavorate: gli 88 milioni di voucher riscossi nel 2015 corrispondono, secondo la nota trimestrale sull’occupazione rilasciata ieri da ministero del Lavoro, Istat, Inps e Inail, a circa 47 mila lavoratori annui full-time, ossia lo 0,23 per cento del totale. In sostanza, l’enorme discussione attorno ai voucher si focalizza su una porzione assolutamente marginale del mercato del lavoro; una porzione che, però, si colloca proprio al confine tra lavoro regolare e lavoro nero e pertanto richiede estrema cautela.
Il contrasto alla precarietà, come ha scritto Taddei, non deve assumere forme che farebbero saltare quei ponti che oggi conducono molti lavoratori dal nero alla legalità. Da questo punto di vista, i buoni lavoro non possono diventare un terreno di scontro ideologico. Se si preferisce, essi non attengono ai grandi temi della flessibilità e della tipologia di tutele per il lavoro dipendente ma solo alle tecnicalità con cui oliare il nostro mercato del lavoro. Un conto, insomma, è svolgere un ragionamento tecnico e cercare di aggiustare lo strumento per massimizzarne il risultato (l’emersione del nero) limitandone gli abusi. Altra cosa è farne l’oggetto di una contesa politica senza riguardo alle conseguenze. Per citare Jules Winnfield, non è lo stesso campo da gioco, non è lo stesso campionato e non è nemmeno lo stesso sport.
Da Il Foglio, 30 dicembre 2016