7 Ottobre 2016
Il Sole 24 Ore
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Quando abbiamo sentito dire (da Gustavo Zagrebelsky nel duello televisivo con Matteo Renzi) che perfino il verbo “vincere” applicato alle elezioni non è tanto appropriato, e che l’impossibilità di far mancare il numero legale alla settima votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica è un vulnus ai diritti delle minoranze, allora abbiamo avuto la conferma che la vera posta in gioco in questo referendum è l’alternativa maggioritario-proporzionale. Il maggioritario è stato fin dall’inizio un punto centrale del programma di Renzi: superare i governi di coalizione, conferire più potere a un governo sostenuto dalla sua maggioranza, consentire agli elettori di determinare in modo “immediato” la formazione di una maggioranza. Ora è disposto perfino a rimangiarsi quello che aveva detto sulla immodificabilità dell’Italicum, pur di vedere incardinato il principio per cui in democrazia la minoranza controlla, ma la maggioranza decide. Per i proporzionalisti, la democrazia si concreta nella rappresentanza, e si realizza nella riproduzione fotografica di dettagli e sfumature delle propensioni politiche. Anche se non tutti quelli che hanno detto che voteranno “No” si considerano a favore del proporzionale, di fatto, o per antipatia verso Renzi o per opposizione a una legge maggioritaria, lo favoriscono.
Ai maggioritari la sola legge elettorale non basta. Se non viene “doppiata” da istituzioni che lo accolgano, il rischio è che si ripeta quello che è successo dal 1994 al 2005, quando nessuna legislatura (tranne una) si è chiusa con lo stesso governo con cui era iniziata. Invece ai proporzionalisti le riforme non andrebbero bene nemmeno se non ci fosse l’Italicum: non gli interessa il maggior rendimento decisionale di cui potrebbe avvantaggiarsi un governo di chi oggi si oppone a Renzi, vogliono il proporzionale proprio perché produce governi deboli.
Se la posta in gioco è maggioritario o proporzionale, anche le “conseguenze economiche del referendum” vanno ricondotte a quella scelta. Certo che la mera riduzione del numero dei parlamentari farà risparmiare qualcosa (500 milioni di euro secondo Renzi, 150 secondo la Ragioneria); certo che l’approvazione da parte della sola Camera e la riduzione del contenzioso con le Regioni farà risparmiare tempo (sempre che si faccia qualcosa perché il guadagno non finisca inghiottito dalle sabbie mobili della burocrazia). Ma di un altro ordine di grandezza è la differenza di effetto che maggioritario e proporzionale hanno sui saldi del bilancio pubblico.
In parlamenti eletti con legge proporzionale, in cui si teorizzano convergenze politiche e maggioranze variabili, le esclusioni politiche si pagano con concessioni economiche. Già nella terza legislatura (giugno 1958 – febbraio 1963) il Pci aveva votato in aula il 73% e in commissione deliberante il 90% delle leggi proposte dal governo o dai parlamentari della maggioranza. Negli anni 70 e 80 il debito esplode, cresce con il declino dell’egemonia democristiana: il rapporto col Pil passa dall’80% nel 1980 al 120% nel 1993.
Oggi, con la frammentazione dei grandi partiti, con il sorgere di formazioni aliene dalla nostra cultura politica, con il trasfughismo favorito anche da un’interpretazione estensiva dell’art. 67 della Costituzione (in questa legislatura già 120 parlamentari hanno abbandonato il partito con cui sono stati eletti e costituito gruppi parlamentari neppure presenti al momento delle elezioni) è evidente aldilà di ogni dubbio che il problema italiano è quello dei governi di coalizione che si formano e si disfano in parlamento.
Se vince il “No”, con la necessità di rimediare alla intrinseca instabilità di una Camera e un Senato eletti con leggi diverse, con una legge iper-proporzionale già scritta dalla Consulta, con un governo debole o perché sconfitto o perché precario, nulla ci salverà dallo scivolare nel proporzionale. Se lo vediamo noi, lo vedono anche coloro che ci fanno credito: se pure l’instabilità politica di questa transizione si risolvesse senza scossoni, a preoccuparli basta il ritornare ai governi di coalizione, la riprova dell’incapacità di questo Paese di realizzare quello che i padri costituenti stessi avevano richiesto, cioè dotarsi di «strumenti costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo» (0dG Perassi).
Per ora il «whatever it takes» di Mario Draghi ha tenuto a bada lo spread. Però la Borsa ha perso il 25% da inizio anno, il saldo di Target2 continua a salire. Non c’è caos in vista, ma dire che se passa il “No” tutto resta come prima, denota un ottimismo infondato.
Da Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2016