Non solo accrescere il numero dei pensionati non crea lavoro per i giovani: fa sì che il loro lavoro debba mantenere più persone, perché è la popolazione attiva che paga per chi attivo non lo è più.
La logica traballa, ma le parole del Papa faranno presa lo stesso, perché siamo tutti spaventati dal fatto che le prospettive dei figli siano meno rosee di quelle dei genitori. Dobbiamo però ricordarci che non sarebbe la prima volta. All’inizio del Seicento l’Italia era la regione col maggior reddito pro capite d’Europa. Duecento anni dopo eravamo un Paese sottosviluppato. Il treno della crescita si può sempre perdere.
Se noi oggi abbiamo una visione dello sviluppo economico come qualcosa di lineare e continuo, è grazie alla rivoluzione industriale, che ha aperto un’epoca di prosperità crescente e sempre più diffusa. Gli storici tutt’oggi si accapigliano su che cosa l’abbia resa possibile. Un fenomeno così complesso ha molte cause. Cruciale, però, fu un cambiamento culturale. Come ha spiegato Deirdre McCloskey, si impose «un nuovo modo di parlare del profitto, degli affari e delle invenzioni». Si smise di pensare ai traffici e ai commerci come attività degradanti, vennero meno gli antichi privilegi, crebbe la mobilità sociale.
La crescita economica moderna si è innestata su una cultura per cui ciascuno ha il diritto di provare a realizzare il proprio futuro.
Quella cultura oggi è molto debole, specialmente nel nostro Paese. I «diritti» di norma sono intesi come spettanze: dietro questa parola non sta la richiesta di opportunità, ma la pretesa di una quota piccola o grande di risorse pubbliche. Il conflitto fra giovani e anziani nasce da qui: i «diritti» delle generazioni precedenti si pagano col debito pubblico, cioè con imposte future.
Quando mettevano questo peso sulle spalle dei loro figli, i padri pensavano ragionevolmente che il Paese sarebbe comunque diventato sempre più ricco. Invece troppe regole, troppe imposte, troppi «diritti» frenano la crescita.
Ieri il Papa ha invitato il sindacato a non tutelare più solo gli «insider». La stessa logica dovrebbe applicarsi a largo raggio.
Bisogna ripristinare la cultura che ha reso la crescita economica moderna possibile. Rimuovere le bardature corporative della nostra economia. Abolire le barriere artificiali all’ingresso nelle professioni. Accettare la competizione dei «nuovi arrivati» sia che si guidi un taxi sia che si faccia l’avvocato sia che si abbia un’impresa piccola o grande. E’ questo il sacrificio che i più anziani dovrebbe fare.
Mai come oggi, i «diritti» dei giovani coincidono con l’opportunità di provare a realizzarsi: un’opportunità di cui i loro genitori hanno goduto in un mondo molto meno asfissiante, quanto a regole e imposte.
Sbaglia chi pensa che i giovani si avvantaggeranno della loro agilità tecnologica. Più l’innovazione corre, e più servono competenze. Gli anziani le hanno maturate sul campo, chi anziano non è ne possiede nella misura in cui le ha apprese nel suo percorso scolastico.
Per la politica troppo spesso il vero obiettivo della scuola è tutelare chi ci lavora, per procacciarsene il sostegno. Non è detto che questo sia compatibile col preparare i giovani alle sfide che li attendono. Il conflitto fra generazioni si alimenta anche così.
Da La Stampa, 29 Giugno 2017