La prescrizione dei reati, tra tribunale e tribuna

La razionalità delle regole della giustizia non necessariamente coincide con il sentimento di giustizia

24 Novembre 2014

IBL

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

La razionalità delle regole della giustizia non necessariamente coincide con il sentimento di giustizia.

L’assoluzione per avvenuta prescrizione dal reato di disastro ambientale nel processo Eternit ha in maniera comprensibile mosso l’ira e il dolore delle vittime. Quello che non è comprensibile né accettabile è che gli umani sentimenti facciano da altare alla politica da cui dispensare incensi anestetizzanti quei sentimenti, senza alcun senso istituzionale e alcuna razionalità giuridica.

Comprendere un processo non è semplice. Quello che è avvenuto la settimana scorsa non è l’assoluzione dei colpevoli, ma – più precisamente – la constatazione che il reato ambientale si è nel frattempo prescritto, mentre resta in piedi l’imputazione per omicidio, da cui potrà conseguire anche il ristoro per le parti civili. Non sono cavilli. Sono fatti che servirebbero a spiegare a persone comprensibilmente stordite e disorientate cosa è chiuso e cosa è ancora aperto.

E, anziché approfittare di quello stordimento per promettere l’eliminazione della prescrizione, bisognerebbe spiegare che la prescrizione è un principio della giustizia formale indispensabile alla giustizia sostanziale. E’ una norma di civiltà che dal codice giustinianeo in poi ha garantito a tutti gli ordinamenti giuridici la certezza del diritto, lo stimolo alla corretta e celere esecuzione della legge, la proporzione tra offesa percepita e danno consumato, che si affievolisce – come ogni offesa – man mano che il tempo scorre. Non a caso, i reati più gravi, quelli per i quali è previsto l’ergastolo, non si prescrivono, perché lì l’ordine non si raddrizza, la ferita non si rimargina. Per gli altri, mentre gli anni lavorano per cicatrizzare, la giustizia dei tribunali ha l’onere di provvedere tempestivamente a ristabilire l’ordine. Se non lo fa, il tempo che essa ha perso sarà lo stesso tempo che ha «lavorato» sulla ferita. Riaprirla, non solo giustificherebbe i ritardi, la latitanza e la lentezza dei giudici – in altre occasioni sempre condannati – ma lascerebbe la società nell’incertezza perenne di una condanna sempre possibile.

Chi frequenta i tribunali, sa che i termini attuali di prescrizione non sono una ghigliottina sul lavoro dei giudici. Sei, sette anni per concludere un processo non sembrano un tempo troppo breve per consentire all’amministrazione della giustizia di arrivare in giudizio. Anzi. Altrove, in altri momenti, sono tempi che ai cittadini e a chi ci governa sembrano eccessivamente lunghi.

Ci sono domande di giustizia che non vengono meno col tempo, ha detto Renzi per annunciare la modifica della prescrizione. Se Beccaria fosse ancora vivo, risponderebbe al Presidente del Consiglio che «un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo» e che è un principio sacrosanto quello di impedire al giudice di decidere del tempo necessario per provare un delitto, un principio che evita ai cittadini di essere sudditi della incertezza della pena, della lentezza dei processi, dell’ignoto della giustizia.

Nella riforma annunciata del processo penale, c’è anche il tema della odiata prescrizione. La sentenza Eternit ha creato l’occasione per ravvivare l’istintiva avversione verso questo principio di certezza del diritto e responsabilizzazione della magistratura. Che questa avversione sia il sentimento delle vittime è fin troppo ovvio; che diventi l’ipocrisia di chi, per governare, solletica il sentimento di un momento contro la razionalità di un principio, è grave.

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