Sì, è vero, siamo tutti un po’ stanchi. Provati dalla crisi che solo oggi accenna molto gradualmente a diventare ricordo. Infiacchiti da un ventennio fatto prevalentemente di chiacchiere e insulti reciproci. Nauseati per il continuo rumore di sottofondo generato dalla politica. Irritati da istituzioni che sembrano voler fare ognuna il mestiere dell’altra. Ma questo non significa che – come si diceva una volta – abbiamo portato il cervello all’ammasso. Questa storia dell’attribuzione politica del taglio delle tasse, se non fosse deprimente, sarebbe ridicola. “Abbassare le tasse non è di destra o di sinistra, è semplicemente giusto”, ha tuonato da Udine – nel pieno del road show sulla legge di stabilità – il presidente del Consiglio. Che sia desiderabile, concordiamo: quando si ha una pressione fiscale come quella italiana ogni riduzione delle imposte è benvenuta. Anche se non ottimale sotto il profilo dell’efficienza (com’è, con ogni probabilità, il taglio di Imu e Tasi). Non ha importanza: va bene lo stesso. Ma sul resto, caro presidente, proprio non ci siamo.
Quel che fa la differenza non è solo – e, dovremmo forse dire, non è tanto – la riduzione delle imposte ma la presenza e la diffusione dello Stato nell’economia, il volume di risorse sottratte alla scelta di ognuno di noi ed intermediate dal pubblico in tutte le sue articolazioni. E sotto questo profilo, caro presidente, una riduzione delle tasse a debito ha poco a che fare con la destra o la sinistra – categorie scivolose nell’Italia di oggi. Rischia anche di essere ben lontana da ciò che serve agli italiani. Perché una riduzione delle tasse a debito non intacca nemmeno per sbaglio il ruolo dello Stato nell’economia, anzi pone le premesse perché domani, quando il debito andrà ripagato (perché ad un certo punto andrà ripagato) quel ruolo si ampli e nuovi spazi di libertà vengano strappati ad ognuno di noi ed attribuiti all’operatore pubblico. Se si vuole una riprova di quanto detto, si torni con la memoria agli ultimi vent’anni: non sono mancanti interventi di riduzione delle imposte varati da governi di centrosinistra così come da governi di centrodestra. Ma non si sono mai accompagnati a provvedimenti reali di riduzione della spesa. Risultato: la pressione fiscale non ha smesso di aumentare. Perché il totem intoccabile a sinistra – e, incredibile ma vero, anche a destra in questo strano paese – non sono le tasse ma la spesa pubblica. In tutte le sue possibili configurazioni (ivi incluso il ritorno alla produzione di acciaio di Stato o la fornitura di servizi alberghieri statali). E il suo governo, caro presidente, sotto questo profilo non si è mai fatto pregare. Sbagliamo?
Ed è incredibile che movimenti politici che hanno trovato nel collocarsi al di fuori dalla dialettica destra-sinistra la loro fortuna non colgano questo punto, che dovrebbe anzi essere trasversale ad ogni programma politico. Proteste veementi si sono – giustamente – levate per l’approvazione a tempi di record della leggina che ha attribuito ai partiti 45 milioni di euro. Ma nessuno che – dagli stessi banchi – si sia levato per segnalare che i veri costi della politica non sono lì ma altrove: nei miliardi (almeno 7) di revisione della spesa da lei rinviata, caro presidente, a data da destinarsi.
Data la configurazione nostrana di sinistra e destra (anche l’ispirazione liberista dI chi poneva la “questione settentrionale” negli anni ’90 è ormai un pallido ricordo), abbassare le tasse è certamente positivo ma se fatto in disavanzo sicuramente non è una scelta lungimirante. Sotto questo profilo, caro presidente, innovi rispetto ai suoi predecessori: non ci prometta rivoluzioni che non sono nelle sue corde. Per il resto, se dobbiamo credere a quel che abbiamo visto negli ultimi vent’anni dobbiamo concludere che tanto a destra quanto a sinistra il cuore batte per una ricetta di politica economica semplice semplice: più tasse (oggi o domani), più spesa (possibilmente subito), più debito (comunque). Per noi, caro presidente, non è così: a noi le tasse non piacciono né oggi né domani. Punto.