La ricetta anti-populista di Piketty è indistinguibile dal populismo

Più stato, più tasse e più regole. Stesse proposte dei sovranisti, cambia solo il livello (sovranazionale) di attuazione.

18 Dicembre 2018

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

I populisti di destra credono che ogni problema si possa risolvere con un divieto. Quelli di sinistra pensano invece che serva una tassa. Nel manifesto per la democratizzazione dell’Europa pubblicato da Repubblica, Thomas Piketty ne invoca addirittura quattro. Sebbene il documento sia lungo e articolato, e contenga anche una cervellotica proposta di revisione dell’architettura istituzionale europea, la vera “ciccia” sta tutta nei nuovi balzelli. Proprio per questo, l’appello dell’autore del controverso “Capital in the Twenty-first Century” non mantiene le proprie premesse e promesse. Le une riguardano la (supposta) esigenza di una terza via tra i partiti sovranisti (“il cui programma è limitato alla caccia agli stranieri e ai rifugiati”) e quelli europeisti (“che in realtà continuano a considerare che il duro liberalismo e la diffusione della concorrenza a tutti – Stati, imprese, territori e individui – sono sufficienti per definire un progetto politico”). Le promesse sono invece relative alle fondamenta intellettuali di tale alternativa.
 Piketty prende le mosse da una bizzarra assunzione, nel momento in cui ascrive il progetto europeo al “liberalismo duro” (qualunque cosa esso sia). L’Unione europea non è lo strumento dell’internazionale liberista, ma la risultante dell’interazione storica delle forze economiche e sociali che si misero in moto, nel Vecchio Continente, dopo la Seconda guerra mondiale. Essa certamente riflette alcune sensibilità che oggi potremmo chiamare liberali, ma che non sono certamente prevalenti rispetto a quelle “popolari e “socialiste”, se non altro per il diverso peso elettorale dei (e nei) due maggiori partiti europei. Ciò che lo studioso francese chiama liberalismo è in realtà qualcosa di radicalmente diverso: ossia la consapevolezza tecnica che, per unire politicamente l’Europa, occorre necessariamente promuovere il mercato interno. La spinta (parziale, limitata e contraddittoria) in tale direzione non riflette dunque una pulsione “ideologica”, ma una necessità pratica: la quale, a sua volta, è frutto di frequenti compromessi non sempre al rialzo. Oltre a questo, la condanna pikettyana del “liberalismo duro” suona come una sorta di abiura della stessa disciplina economica. Per esempio, che vi siano nessi tra libero commercio e crescita, o tra concorrenza e innovazione, sono risultati empirici della ricerca in campo economico: nel momento in cui li tratta alla stregua di proposizioni di valore, Piketty dismette i panni del serio studioso che è e indossa quelli dell’agit prop che, forse, vuole essere.
 Dalla debolezza delle premesse non può che derivare la fragilità delle promesse. Che, appunto, passano attraverso la concreta riproposizione di nuove tasse (sulle grandi imprese, sui redditi più elevati, sui patrimoni superiori al milione di euro e sulle emissioni climalteranti), per racimolare un budget europeo pari al 4 per cento del Pil europeo. Per farci cosa? “Finanziare la ricerca, la formazione e le università europee, un ambizioso programma di investimenti per trasformare il nostro modello di crescita economica, il finanziamento dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti e il sostegno a coloro che si occupano di attuare la transizione”. Viene da dire: magari bastasse il 4 per cento del Pil! Tutti gli Stati membri dell’Ue spendono ben di più (in media il 45,8 per cento, l’Italia il 48,7 per cento) e neppure ci riescono! L’obiettivo di Piketty è la disuguaglianza, ma la lettura che egli offre di un fenomeno tanto complesso è semplicistica a dir poco. Sembra infatti trascurare che il nesso tra pressione fiscale e disparità sociali è tutto fuorché ovvio. E’ vero che esistono paesi con tante tasse e poca disuguaglianza (la Finlandia) e altri che si trovano nella situazione opposta (la Bulgaria). Ma ci son più cose tra cielo e terra di quante Piketty ne possa sognare nella sua filosofia: paesi con poche tasse e poca disuguaglianza (l’Irlanda) e altri che abbondano nelle une e nell’altra (l’Italia). Ridurre il tema della ineguaglianza a una faccenda tributaria è, contemporaneamente, fuorviante e sbagliato; ma diventa populista nel momento in cui nel mirino del fisco pikettyano entrano “i soliti sospetti”, senza uno straccio di analisi sulle conseguenze dinamiche delle gabelle proposte, per esempio, su crescita, innovazione, povertà.
 La triste realtà è che dietro una retorica apparentemente meno urticante, la proposta di Piketty è indistinguibile da quella dei populisti che dice di voler combattere: la diagnosi è la stessa (il mercato e la globalizzazione producono ingiustizia), identica è la terapia (più Stato, più tasse e più regole). L’unica differenza sta nel veicolo a cui attribuire tale funzione: dove i “populisti” vogliono lo Stato nazionale, i “diversamente populisti” chiedono lo Stato sovranazionale. Se sia meglio morire di decrescita per il protezionismo sovranista o per l’interventismo europeo, è una domanda a cui sarebbe meglio non dover rispondere.

Da Il Foglio, Martedì 18 Dicembre 2018.

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