La riforma non ferisce la Costituzione

Il vero rischio è la spesa pubblica


25 Gennaio 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Politiche pubbliche

Il voto favorevole in Senato alla legge sulla autonomia differenziata non introduce l’autonomia differenziata. Non è inutile ricordarlo, dati il tono e il contenuto delle reazioni alla riforma. La possibilità per le regioni di negoziare con lo Stato una maggiore autonomia in una serie di materie è già realtà da più di venti anni. Fu infatti la revisione costituzionale del 2001 a introdurre, nell’ambito della contorta e complessiva riforma del regionalismo italiano, tale eventualità. In tutti questi anni, poche regioni – in particolare Emilia Romagna, Lombardia e Veneto – hanno seriamente intrapreso la strada delle intese con lo Stato e nessuna è riuscita a portarla a termine. Per questo la Lega, rappresentando le istanze regionaliste del Nord, ha promesso di tornare a battere sul punto. 

La legge che è stata approvata in prima lettura, quindi, senza introdurre ciò che già c’è, si limita a prevedere una cornice normativa unitaria all’interno della quale percorrere la via della maggiore autonomia, per le regioni che vorranno. Già questo dovrebbe smorzare i toni concitati con cui la questione viene commentata, sia tra chi la ritiene una svolta epocale sia tra chi crede che sia un furto al Sud sia, infine, tra chi sostiene che rappresenti una frattura insanabile all’unità del Paese (ammesso che questa esista). 

Dal punto di vista della distribuzione del potere sul territorio, peraltro, l’Italia è già un paese differenziato: a specifiche situazioni di frontiera e insularità è stata data una risposta individualizzata attraverso gli Statuti speciali, mentre il resto del territorio italiano, anni dopo le regioni speciali, è stato uniformato con un modello ordinario distante dal primo in termini sia di autonomia legislativa che finanziaria. 

La legge fa una cosa buona e una meno buona. La cosa buona è rivitalizzare il tema del regionalismo provando di nuovo a rompere un inspiegabile tabù per cui ogni forma di decentramento è un sacrilegio costituzionale. Giuridicamente, non c’è alcun motivo di ritenerla tale: i sistemi federali hanno un’autonomia molto più spinta del nostro ma è difficile sostenere che gli Stati Uniti non sono, appunto, uniti. Il tema ha poi una sua legittimazione politica ed è bene che la discussione, anche tra i più accesi detrattori, parta da questo presupposto. 

Infine, dal punto di vista economico, c’è una fallacia di fondo in tutti i timori per il Sud. Nel 2018, uno studio del Senato definiva il Mezzogiorno italiano «la più grande area depressa del continente» europeo. Il divario di Pil pro capite rispetto al Centro-Nord è rimasto pressoché immutato per trent’anni e la crisi di inizio millennio non ha fatto altro che aumentare la distanza rispetto agli obiettivi attesi. 

Il sostanziale fallimento delle politiche per il Sud impone, da tempo, una messa in discussione delle modalità di trasferimento di risorse pubbliche finora adottate e una domanda sulle alternative possibili. Di esse, non solo è lecito, ma sarebbe anche doveroso parlare per trovare una soluzione a quella che Sturzo definiva una questione né meridionale né settentrionale, ma nazionale, che non dipende dalle donne e dagli uomini del Sud ma dall’uso delle risorse pubbliche come strumento di potere e non come sostegno al territorio. 

Basterebbe pensare ai divari nell’istruzione o alla mobilità sanitaria a cui si sottopongono i residenti del Sud (e che viene peraltro pagata dalle regioni del meridione a quelle del settentrione), per iniziare a provare a dubitare che i sacrosanti doveri di solidarietà possano attuarsi solo attraverso le soluzioni finora adottate. Il rischio che si corre con questa legge non è quindi sotto il profilo della solidarietà economica e politica, quanto sotto quello della spesa pubblica. 

La legge richiede infatti la preventiva necessità di determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Laddove dalla determinazione dei livelli derivino maggiori esigenze di spesa pubblica, si prevede che il trasferimento di funzioni sia possibile solo dopo lo stanziamento delle risorse necessarie agli obiettivi, senza pregiudicare l’entità di quelle da destinare alle altre regioni. I territori che non accederanno alle intese beneficeranno di misure perequative, ossia una sorta di compensazione rispetto alla differenza tra quello che otterranno le regioni interessate all’autonomia e il livello ordinario. 

La presenza di una clausola di invarianza finanziaria impone a questo punto un’alternativa: o quella clausola verrà superata, aprendo così una stagione di aumento oltre che di contrattazione di spesa pubblica; o l’autonomia resterà sulla carta, come è stato finora. 

da La Stampa, 25 gennaio 2024

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