La rivincita dell'uomo comune

Il tycoon ha saputo denunciare le elite al potere e restituire valore al cittadino qualunque

14 Novembre 2016

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Da tanti punti di vista, la democrazia moderna ha sviluppato un rapporto particolare con gli Stati Uniti, dove più che altrove s’è imposta l’idea che al centro della scena debba esserci l’uomo comune. Nella vita pubblica americana si è insomma radicata l’idea che la migliore garanzia per la libertà individuale consista nell’affidare le decisioni non già a un piccolo gruppo di «saggi», ma all’uomo della strada.

E’ impossibile capire quanto è successo con l’elezione di Donald Trump senza tenere in considerazione questo aspetto, perché non solo il voto ha decretato la sconfitta del clan dei Clinton e del sistema di potere democratico-repubblicano che domina Washington da decenni, ma ha anche rilegittimato la sensibilità del cittadino qualunque.

Sul piano culturale, la vittoria di Trump è la Waterloo di quel politicamente corretto che da troppo tempo domina i campus e l’informazione. Oltre a ciò, essa segna un punto a favore di quanti difendono il diritto di portare armi e vorrebbero pure un ridimensionamento della politica estera: per avere meno spese militari e meno tasse, ma anche una minore ingerenza nel mondo intero.

Se Trump ha potuto vincere, insomma, è perché nella società americana è ancora viva una sensibilità anti-aristocratica che esalta il contributo anonimo di tanti piccoli imprenditori, lavoratori, artigiani. È l’universo dei «redneck» e di quanti si collocano ai livelli più bassi della società bianca statunitense.

Dietro a tutto ciò vi è una lunga storia. Quando nel 1828 Andrew Jackson vinse le elezioni, la sua nomina ebbe luogo al termine di una lunga fase che aveva visto l’egemonia di una sorta di aristocrazia coloniale. Dopo sei presidenti provenienti dal medesimo ambiente sociale, Jackson era un self-made man. Quando egli s’insediò, a molti sembrò – come scrisse un contemporaneo – che Washington conoscesse qualcosa di simile alla «inondazione dei barbari nordici calati su Roma».

Fu proprio il partito jacksoniano a premere sull’acceleratore del suffragio universale, convinto che solo dando il pallino nelle mani all’uomo della strada (il «common man») si sarebbero avute amministrazioni al servizio di tutti. C’era certo molto di ingenuo in quella visione della democrazia. Assai presto, in effetti, nella capitale si consolidò una concentrazione di potere che finì per corrompere larga parte della nazione.

Anche in America gli uomini di potere impararono presto a usare la spesa pubblica, i media, la finanza e gli strumenti della regolazione al fine di costruire un dominio sempre più esteso. È contro questo sistema di relazioni che distribuisce favori e impone la propria logica (il cosiddetto «establishment») che s’è imposto il «ciclone Trump»: un uomo inviso a entrambi i partiti e che però ha chiamato a sé una larga fetta della società americana – come già avvenne negli anni del «populismo» jacksoniano – e ha costruito il proprio successo sulla denuncia dell’elitarismo del potere. Il «common man» ha avuto fiducia in Trump. Speriamo che non debba pentirsene.

Da Il Giornale, 12 novembre 2016

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