La rivoluzione industriosa

Coase e Wang ripercorrono le galoppanti trasformazioni della Cina, le sue "rivoluzioni marginali" nel libro edito da IBL Libri

26 Giugno 2014

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Argomenti / Teoria e scienze sociali

La Repubblica popolare cinese il 1° ottobre compirà 65 anni. Guardando la sua età anagrafica con occhi occidentali, siamo portati a considerarla l’ultima arrivata tra le grandi potenze, dimenticando gli straordinari successi sociali ed economici, che l’hanno portata quest’anno a sorpassare gli Usa (secondo l’International Comparison Program, della Banca Mondiale, che ha misurato la ricchezza a parità di potere d’acquisto). Attraverso la rivoluzione e il comunismo la Cina si è risollevata dall’estrema povertà, che alla sua nascita la poneva tra gli ultimi al mondo, più rapidamente di economie simili, garantendo cibo (attraverso un sistema misto di razionamento di Stato e dí autoassicurazione collettiva, spiega la Banca mondiale), lavoro, istruzione e assistenza medica di base.
Con la bandiera rossa che sventola su un territorio poco più piccolo di quello degli Usa, ma con una popolazione quattro volte superiore, la domanda ricorrente è: come definire l’assetto economico della Cina? Comunismo, capitalismo di Stato, socialismo dí mercato o semplicemente capitalismo? A questa domanda (che ne sottende molte altre, per esempio: “Sarà pacifica la Cina o vorrà seguire l’esempio dell’imperialismo americano?”) risponde il libro appena pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni, Come la Cina è diventata un paese capitalista, di Ronald Coase l’economista scomparso di recente, scritto con un altro economista Ning Wang.

Il gradualismo cinese
Coase e Wang ripercorrono le galoppanti trasformazioni della Cina, le sue “rivoluzioni marginali” come l’autonomia delle municipalità rurali, la politica del “doppio binario” (la coesistenza della pianificazione e del mercato nel coordinare la produzione nel settore pubblico), le riforme di Deng Xiaping, l’introduzione dell’economia individuale (geti jingji), arrivando alla conclusione che “La Cina divenne capitalista cercando di modernizzare il socialismo”. Come? Con il gradualismo: “Nel tempo, però, la relazione fra socialismo e Cina attraversò un processo di sottile metamorfosi. Il socialismo venne gradualmente trasformato da strumento politico a obiettivo avvincente, il cui raggiungimento giustificava il sacrificio del popolo. In nome della protezione e dell’espansione del socialismo, il popolo cinese divenne una semplice pedina da muovere verso una meta“. Per Coase e Wang la Cina è più confuciana che marxista-leninista: “Tuttavia, nonostante i molti limiti, non è possibile né auspicabile, per il capitalismo in stile cinese, liberarsi di ciò che Io contraddistingue”, perché “la Cina porta con sé la promessa dello sviluppo di una forma diversa di capitalismo, costruita sulle proprie tradizioni culturali ricche e diversificate che si rapporta apertamente con l’Occidente e con il resto del mondo”.
Per gli autori, la Cina “aggiunge diversità culturale al capitalismo”, emergendo “come l’unico caso in cui il Partito comunista e l’economia di mercato sembrano in grado di prosperare insieme. Questa partnership sconcertante fra liberalizzazione economica e continuità del predominio comunista è ampiamente percepita come la chiave per capire lo straordinario risultato della trasformazione di mercato della Cina».
I due autori auspicano che «Lo sviluppo di un mercato delle idee farà in modo che siano conoscenza e innovazione a guidare la crescita dell’economia cinese. La Cina, allora, non sarà solamente il centro manifatturiero del mondo, ma anche una vivace fonte di creatività e innovazione».

Adam Smith a Pechino
Giovanni Arrighi nel libro Adam Smith a Pechino, scritto nel 2008 poco prima di morire, afferma invece che «bisogna spazzare il terreno dal mito che l’ascesa cinese possa essere attribuita a una presunta conversione al credo neoliberale», perché «si possono aggiungere capitalisti a volontà a una economia di mercato, ma se lo Stato non è subordinato al loro interesse di classe, quell’economia di mercato mantiene il suo carattere non capitalistico». Arrighi analizza cosa contraddistingue il sistema economico cinese e che si pone come un Beijing Consensus in contrapposizione con il Washington Consensus: l’accumulazione primitiva del capitale non è passata attraverso la spoliazione delle classi subalterne, in particolare i contadini, ma anzi «le misure redistributive della riforma agraria sono sfociate in una rapida e delocalizzata accumulazione industriale senza perdita della terra». Tanto che: «fra il 1980 e il 2004 le imprese di municipalità e di villaggio hanno creato un numero di posti dí lavoro quadruplo di quelli persi nello stesso periodo nelle città dalle imprese statali o collettive». Nel 1990, poi, la proprietà di queste imprese è stata conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o del villaggio interessato. Questo gradualismo nel ristrutturare, procedendo di pari passo alla creazione di nuovi posti di lavoro che garantiscano «il riutilizzo operoso delle risorse», è un’altra peculiarità del modello cinese che, dice Arrighi, prende le distanze dagli shock economici della scuola di Chicago. La chiave dei processi di privatizzazione e deregulation, secondo Arrighi, è stata l’aver messo in concorrenza le imprese statali tra di loro e con le compagnie straniere, ma soprattutto di aver creato «un variegato schieramento in cui si contano nuove aziende private, nuove aziende a partecipazione privata e imprese di proprietà delle comunità».

Ci sono due differenze sostanziali per Arrighi tra la Cina e l’Europa: «Il sistema degli stati nazionali dell’Oriente asiatico si distingue per la pratica assenza sia dì scontri militari interni al sistema stesso che di espansione geografica esterna». La seconda è «l’assenza fra gli stati dell’Oriente asiatico di ogni tendenza alla costruzione, in concorrenza fra loro, di imperi oltremare nonché di una corsa agli armamenti anche lontanamente paragonabile a quella che caratterizzava gli Stati europei». Queste caratteristiche per Arrighi da una parte configurano la possibilità che la Cina possa contribuire «all’emergere di un commonwealth delle civiltà veramente rispettoso delle differenze» che spiega la presenza di Adam Smith nel titolo del libro. Allo stesso tempo non la mettono al riparo dal rischio potenziale di «trasformarsi in un nuovo epicentro di caos politico e sociale, facilitando così i tentativi del Nord di ristabilire il proprio distruttivo dominio».

Da Valori, 26 giugno 2014

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