Per il Movimento Cinque Stelle, amministrare Roma e Torino è un po’ l’esame di maturità. Quando la Lega s’impose sulla scena nazionale, il partito di Bossi cercò in tutti i modi di piazzare buoni amministratori nelle città del Nord che, una dopo l’altra, cadevano nelle sue mani.
Le due sindache hanno appena cominciato a lavorare e hanno messo nero su bianco le “linee programmatiche”. Non sono documenti che leghino loro le mani, ma danno il senso della direzione di marcia In cima alle sue priorità, Chiara Appendino mette la riorganizzazione della macchina comunale: riorganizzazione “partecipata”, “bottom up”, che parta dalle competenze dei singoli impiegati.
Formule rassicuranti a parte, il suo è un vero piano d’attacco all’inefficienza: ricognizione dell’esistente, analisi dei fabbisogni, e l’identificazione di una sede unica del Comune.
Una mossa che forse non è sufficiente a consentire un miglior controllo dei dipendenti comunali, ma va in quella direzione.
E’ chiaro però dove si fermino le intenzioni “efficientiste” di Appendino: davanti alle società a partecipazione municipale. Nel piano per i prossimi cinque anni, per le partecipate si parla di “una pianificazione strategica finalizzata al rafforzamento e all’implementazione delle società che erogano servizi essenziali”.
Formula ambigua ma sufficientemente chiara nel no alle dismissioni. Persino per il “masterplan delle residenze universitarie” i grillini vogliono “incentivare la gestione pubblica”. Il nuovo Sindaco esclude apertamente la “valorizzazione” degli edifici storici.
Dire che i gioielli di famiglia non si vendono suscita l’applauso: ma siamo sicuri che stiano meglio nella credenza della nonna? Fuor di metafora, non è certo che la gestione pubblica degli immobili di pregio produca maggiori benefici per la collettività che la loro privatizzazione: ovvero le entrate che ne deriverebbero ma pure le azioni di tutela, ripristino e messa a reddito a opera dei nuovi proprietari.
Ciò è coerente con l’approccio urbanistico della nuova giunta, che esige uno stop al “consumo di suolo e sottosuolo”.
La città deva rimanere com’è, e non essere “violata” dalla crescita economica. Di qui, l’elogio del piccolo commercio e l’attacco alla grande distribuzione.
Il sistema delle locazioni commerciali andrà “revisionato” per “non consentire la proliferazione delle strutture di media e grande superficie per evitare la chiusura degli esercizi di vicinato”.
La giunta sogna “iniziative di moral suasion atte a indirizzare i flussi commerciali verso i negozi di vicinato, e sostegno alle campagne di sensibilizzazione atte a disincentivare gli acquisti nei giorni festivi”.
Terzo comandamento a parte, non si capisce bene perché il Comune dovrebbe dire a un cittadino di non comprarsi un paio di jeans la domenica, o che il pane non lo può acquistare al “super”, e men che meno cosa sia questa “moral suasion”. Ticket di posteggio più alti in prossimità dei centri commerciali? Per la vecchia drogheria, sono tempi duri: non c’è dubbio. Ma la concorrenza ha portato molti piccoli esercizi a specializzarsi, a innovare, e le montagne di difficoltà che ancora incontrano (dalle tasse alla burocrazia) non possono essere spianate da un po’ di “protezione”.
Anche Raggi propone di rendere più efficiente la macchina comunale, con una “Roma semplice” fondata su “open government, competenze digitali, agenda digitale”.
Mettere on line dati e informazioni in grande quantità è sicuramente una risorsa, per i cittadini informati: ci sarà bisogno di studiosi, giornalisti e blogger che sappiano farne buon uso, trasformarli in materia facilmente digeribile da parte del cittadino. Ma di per sé non “semplifica” nulla.
Né lo faranno iniziative come la “Consulta cittadina per l’Innovazione”. Raggi sa che le “competenze informatiche” non sono uniformemente diffuse, e si pone il problema di moltiplicarle. Se pure sogniamo una “città di smanettoni”, non è detto che essa abbia procedure fluide e processi lineari. Per costruirle, la “partecipazione”, nell’ignoranza del diritto vigente, non serve a molto.
Anche Raggi vuole una gestione «lungimirante» del patrimonio immobiliare, per farne «un importante luogo di sperimentazione di pratiche di risparmio energetico, di efficientamento e di introduzione di nuove tecnologie» (sulla scorta della “sostituzione dei corpi illuminanti con le tecnologie Led”). Guai a privatizzare.
Per rispettare la volontà popolare del referendum sull’acqua, verrà inserito nello Statuto di Roma Capitale il “Diritto all’Acqua”: in più, ci sarà una consulta di cittadini che vigili sulla realizzazione degli investimenti e delle attività.
Siamo un Paese di santi, poeti, e regolatori delle acque.
Sui rifiuti, punto di grande rilievo nel governo di una grande città, le sindache si inchinano al principio dell’ “economia circolare”, slogan che oggi va per la maggiore. Diverse sono le iniziative messe in campo: dall’incentivazione del mercato dell’usato alle più varie forme di sensibilizzazione.
Entrambe le sindache vogliono più “isole ecologiche” (un pragmatico “più cassonetti”), Raggi punta anche sulla “tariffazione puntuale (più ricicli meno paghi)”.
Per quanto riguarda i trasporti, si sprecano le dichiarazioni d’intenti a favore della “mobilità alternativa”. Si parla di bike e car sharing, senza una mezza parola su Uber: i tassisti possono dormire sonni tranquilli. Nel programma romano, c’è l’idea, interessante, di ripensare i flussi del trasporto pubblico sulla base delle necessità “rivelate” dalle scelte dei cittadini-utenti.
Proprio in questo contesto, un’apertura al car pooling sarebbe parsa naturale.
Su alcune uscite delle due sindache ci sono già state polemiche.
“Il Foglio” ha segnalato questa perla, dal programma di Raggi: «Roma Capitale è portatrice di una visione biocentrica che si oppone all’antropocentrismo specista che nella cultura occidentale ha trovato la sua massima espressione». Appendino vuole il wi-fi libero ma teme l’inquinamento elettromagnetico.
A Raggi e Appendino va riconosciuto che nei loro programmi non ci sono solo sparate di questo tipo. Ne emerge anche la voglia di mettere a fuoco i problemi.
E queste posizioni, che ora provocano qualche risolino, in realtà non sono affatto “fuori” dal mainstream. Le uscite più ideologiche del Movimento Cinque Stelle sono perfettamente accordate con una certa sensibilità “di sinistra” che negli ultimi anni si è conquistata il monopolio dei salotti: dal no alla globalizzazione al km O. L’idea centrale è che la crescita economica sia un vizio degli ultimi due secoli: un vizio da superare, in omaggio a un non meglio definito concetto di “qualità della vita”.
Per alcuni è stata una formidabile strategia per vendere libri: i pentastellati l’hanno presa sul serio.
La loro è la prima generazione di politici che non fallirà nel garantire crescita e benessere, semplicemente perché non ci proverà neppure.
Da La Stampa, 1 agosto 2016