La secessione non è un tabù ma un sogno per la crescita

Se i catalani o i veneti intendono andarsene é perché si sentono sacrificati, principalmente per ragioni economiche (ma non solo), da Madrid e da Roma

7 Aprile 2014

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

L’attualità del referendum indipendentista auto-organizzato in Veneto, che ha avuto un numero di adesioni davvero sorprendente, obbliga a interrogarsi sulla legittimità e sulla desiderabilità di processi politici volti a disgregare gli Stati nazionali.

In particolare, c’è da chiedersi se questi processi volti alla dissoluzione degli Stati ottocenteschi (che già potrebbero essere innescati dai referendum che avranno luogo in Scozia e Catalogna) possano essere accolti all’interno di una prospettiva liberale. Apparentemente, la teoria della libertà individuale non sembra avere dirette relazioni con tutto ciò. Un’area regionale può certamente separarsi per dare vita a un ordine oppressivo, e talvolta i movimenti secessionisti hanno esattamente forti tratti statalisti, socialisti, illiberali. A dispetto di questo esiste però un legame assai solido tra diritto di autodeterminarsi e liberalismo, tra i referendum per l’indipendenza e la speranza di dare un futuro all’Europa.
In primo luogo, il diritto di secessione è sempre stato inteso (fin dai tempi di un teorico come Johannes Althusius) quale espressione del diritto di resistenza. E poi perché molti catalani o veneti intendono andarsene? Perché si sentono in vario modo sacrificati, principalmente per ragioni economiche (ma non solo), da Madrid e da Roma. Dal momento che sono maltrattati, vogliono dare vita a loro istituzioni loro. Non è allora sorprendente che la possibilità di secedere sia sempre stata considerata, nei regimi autenticamente federali della prima modernità, come la migliore garanzia di fronte al rischio di subire un trattamento oppressivo.

Per giunta, quando gli europei hanno deciso di innestare il voto democratico sulle garanzie e sui diritti della tradizione liberale, è chiaro che hanno deciso di considerare la volontà popolare come la prima e fondamentale fonte di legittimità dell’ordinamento politico. Non è allora un caso che fin dal 1882 un autore come Ernest Renan, in una celebre conferenza sulla nazione, abbia difeso il diritto di ogni comunità a decidere dove stare. La nazione, sostenne lo studioso francese, è un «plebiscito di ogni giorno» e soltanto la volontà espressa dai cittadini può mantenere all’interno di determinati confini: non qualche norma costituzionale redatta da personaggi ormai tutti defunti, non la forza delle armi, non la prosopopea dei nuovi nazionalisti post-marxisti. Quel testo di Renan divenne cruciale per vari teorici successivi. Quelle tesi sono state infatti riprese dal maggiore economista liberale del Novecento, Ludwig von Mises, persuaso che l’unico serio modo di affrontare il problema delle nazionalità consista, appunto, nel riconoscere a ogni comunità – piccolo o grande – il diritto di autodeterminarsi. E in questo senso non ai capisce come oggi i nostri «democratici» tanto innamorati della Costituzione possano pensare di negare ai veneti o a qualunque altra comunità tale primario diritto di voto, che definisce dove si sta e con chi. Grazie anche all’influenza di Mises, la secessione quale strategia di libertà risulta cruciale in suo allievo americano, Murray Rothbard, che di fronte alle difficoltà dell’Europa centro-orientale post-socialista suggerì di avviare secessioni a catena, dando ai croati il diritto di lasciare la Jugoslavia e a ogni comunità serba o bosniaca il pieno diritto, a loro volta, di andarsene da Zagabria.

Nella prospettiva libertaria non si tratta solo di riconoscere a ognuno il diritto di stare «con chi vuole» e «con chi lo vuole»: per chiamare la formula che fu coniata da Gianfranco Miglio. Questo è certamente cruciale, ma va aggiunto che una delle conseguenze di tale prospettiva è che ci si avvierebbe verso una concorrenza istituzionale crescente. Un Veneto indipendente cercherebbe di attirare imprese e capitali, con basse tasse e buoni servizi, obbligando un’eventuale Lombardia analogamente indipendente a provare a fare meglio. Sono queste le tesi di chi, come Hans-Hermann Hoppe, da anni auspica che l’Europa possa riscoprire le proprie vere radici in un localismo aperto al mercato e alla globalizzazione, scommettendo su piccoli governi (locali) in modo da poter avere mercati sempre più interconnessi e sottratti allo strapotere dei governi. Non è un caso che lo scorso anno Hoppe sia stato tra i primi sottoscrittori di un manifesto per il diritto dei veneti a scegliere il loro futuro. E tra gli altri firmatari figurano studiosi liberali del calibro di Pascal Salin, Donald Livingston e Ralph Raico, Sala-i-Martin. Da tempo, d’altra parte, la cultura liberale e libertaria considera lo Stato nazionale un relitto, i processi di unificazione continentale una vera minaccia e i movimenti secessionisti una vera opportunità. Nella riflessione liberale contemporanea su questi temi, allora, conta ben poco se alcuni movimenti volti alla separazione non appaiono liberali in senso cristallino. A spingere verso una maggiore libertà individuale sarà il definirsi di un assetto di poteri dispersi, che obbligheranno i nuovi governi a offrire buoni servizi a costi contenuti. D’altro canto, l’America è nata da una guerra di indipendenza che fu anche una rivolta fiscale. Che stia per accadere, in Veneto, qualcosa di simile?

Da Il Giornale, 4 aprile 2014

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