La solitudine del neoliberista

Un'arringa controcorrente sfida i pregiudizi diffusi contro l'economia di mercato

16 Gennaio 2019

Corriere della Sera

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Alberto Mingardi non ci sta. Come il più indomito dei salmoni risale la corrente contraria al neoliberismo. Argomenta, polemizza, smonta luoghi comuni e false rappresentazioni. Ma è, purtroppo, in questo momento, un gladiatore solitario. Nel suo La verità, vi prego, sul neoliberismo (Marsilio), il direttore dell’Istituto Bruno Leoni si mostra convinto che le politiche di liberalizzazione e di apertura dei mercati siano state una rarità. Una fioca luce accesa solo da due giganti del Novecento come Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Altro che eccesso da «ordoliberismo», termine tornato di moda perché usato fino alla noia dalla propaganda populista e nazionalista. Anche contro l’Unione Europea a «trazione tedesca». «Ordo» era la rivista degli sfortunati paladini della concorrenza nella Germania degli anni Trenta. La Germania peraltro è stata autenticamente liberale, secondo l’autore, solo negli anni di Erhard.

«Non c’è disastro, dall’incendio della Grenfell Tower a Londra al crollo del ponte Morandi a Genova — scrive Mingardi, che è anche docente di Storia del pensiero politico — che non sia colpa del neoliberismo». Si comincia con le accuse alla Mont Pelerin Society — il club privato liberale cui aderirono, tra gli altri, Wilhelm Röpke e Milton Friedman — di essere il «puparo» del Cile di Pinochet. E si finisce con l’ultima crisi finanziaria frutto della insana deregulation bancaria e dell’eccesso di globalizzazione. Un fenomeno, quest’ultimo, assai complesso, non spiegabile solo con l’abolizione del Glass-Steagall Act e la conseguente troppa libertà lasciata alle banche d’affari. «La crisi venne dall’immobiliare e dalla proliferazione delle ipoteche a rischio». In sintesi, possiamo dire che se la libertà di mercato è usata male, non è una ragione per toglierla del tutto. È l’occasione per regolarla meglio.

Secondo Mingardi «la pietra angolare della leggenda nera del neoliberismo» è riassumibile in un assunto, assai popolare. «I neoliberisti si sono impadroniti del potere, gli elettori hanno subìto un lavaggio del cervello ad opera dell’intellettuale collettivo neoliberista. Tutto ciò ha offerto una visione distorta del rapporto tra Stato e mercato». In realtà di Stato ce n’è ancora tanto e di mercato relativamente poco. La globalizzazione, spiega l’autore, non è come molti pensano un fenomeno recente, degli ultimi trent’anni, da quando è caduto il Muro di Berlino. «Negli Anni Novanta dell’Ottocento erano rimasti solo due Paesi a richiedere un passaporto a chi si presentava alla loro frontiera: la Russia e l’Impero ottomano». Mingardi si chiede quanto neoliberismo ci sia nella globalizzazione. Non tanto. Spiega le virtù della divisione internazionale del lavoro e del ricardiano vantaggio comparato che porta alla specializzazione e all’efficienza. Calcola i costi, indiretti e invisibili, del protezionismo, il cui dividendo politico è alto solo nel breve periodo. Nega che le politiche neoliberiste, quando mai siano state veramente perseguite, abbiano prodotto un indebolimento dello Stato sociale. In media nei Paesi Ocse la spesa sociale è cresciuta dal 16 per cento, rispetto al Pil (Prodotto interno lordo), del 1990 al 21 per cento del 2016.

La concorrenza rimane una chimera. L’Italia avrebbe l’obbligo, dal 2009, di produrre ogni anno una legge sulla concorrenza. L’ha fatta una volta sola il governo Renzi. E dopo 895 giorni è uscito dal Parlamento un mostro giuridico. «In un Paese come il nostro — scrive l’autore — nel quale gli stessi legislatori ignorano quante siano di preciso le leggi, parlare di neoliberismo o di eccesso di deregolamentazione è persino ridicolo». Un Paese più diseguale. Secondo Mingardi, soprattutto maledettamente immobile. Ricurvo su se stesso.

Anche l’euro è colpa o merito del neoliberismo? La moneta unica non piaceva a Milton Friedman. È stata una creatura dei poteri statali. Con un grande merito, nell’analisi liberale: l’indipendenza della banca centrale. La sovranità monetaria degli Stati, nell’opinione dell’economista spagnolo Jesús Huerta de Soto, è «la possibilità di manipolare la propria moneta per metterla al servizio delle necessità politiche». E i cambi fissi costringono i governi a «dire la verità ai cittadini». Se avessimo ancora la lira — che nei dieci anni precedenti all’euro perse la metà del proprio valore sul dollaro — oggi, con quel ritmo di svalutazione, un iPhone ci costerebbe tre volte di più. E così la benzina, i viaggi aerei. Ma la nostalgia, tratto irrazionale di questa fase della politica, ingigantisce i presunti vantaggi del passato e cancella il ricordo di miserie, malattie, guerre. Il ritorno alla tribù non nasconde solo il desiderio di vivere in un luogo sicuro. C’è il fastidio della complessità, che comporta sacrificio, studio, impegno.

Sorprende che un economista raffinato come Mingardi ricorra a uno chef dai modi spicci, come Antonino Cannavacciuolo, per spiegare il «calcolo economico» di Ludwig von Mises. Ma l’esempio è efficace. Nella «cucina da incubo», Cannavacciuolo riporta cuochi e gestori alle logiche del prezzo e della convenienza del consumatore. In Italia ci sono 200 mila ristoranti, il 45 per cento delle attività non sopravvive tre anni. Forse un po’ lungo è il «corpo a corpo» dell’autore con Mariana Mazzucato che difende il ruolo dello Stato in economia. È semplicistico dire che solo grazie al finanziamento pubblico è stato inventato Internet, frutto della ricerca di grandi centri universitari, pubblici e privati. O l’iPhone. Forse lo si può sostenere per il sistema Gps e per l’effetto civile di alcune spese militari, ma una innovazione è sempre la conseguenza di un ambiente aperto, dello spirito di iniziativa dei singoli, dello scambio di saperi, del confronto continuo. Mingardi cita un bellissimo discorso di Obama che ai suoi occhi è stato troppo socialista per essere un grande presidente degli Stati Uniti. «Se avete avuto successo è perché qualcuno prima o poi vi ha aiutato. In un certo momento della vita c’è stato un grande insegnante». Magari venuto da fuori, immigrato. Grazie a una società aperta. Ci sono solide ragioni economiche nel regolare al meglio l’immigrazione «e non solo per pagare le pensioni future», afferma Mingardi. «Gli esseri umani sono sempre una ricchezza». Insomma, quel poco di liberismo che c’è, è in sintesi il pensiero finale dell’autore, «ha prodotto ricchezza e opportunità». E nel tornare indietro abbiamo molto da perdere. Ma purtroppo non ce ne accorgiamo. Per ora.

dal Corriere della Sera, 16 gennaio 2019

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