Gli ultimi sondaggi danno il Pd al 27%, più vicino al risultato delle politiche 2008 (25,4%) che a quello delle europee 2014 (40,8%).
La popolarità di Emmanuel Macron, a un mese dal trionfo delle legislative, si è erosa del 10%. A Theresa May sono bastate poche settimane e un paio di dichiarazioni improvvide per passare da dominatrice annunciata della politica britannica a premier in attesa di successore.
I voti sono diventati più contendibili. Quando Silvio Berlusconi fondò Forza Italia e in meno di un anno riuscì a vincere le elezioni, il fenomeno era talmente inusuale che lo si dovette spiegare coi suoi quattrini e le sue televisioni. Adesso che Macron ha fatto, senza televisioni e con molti meno quattrini, qualcosa di simile, giustamente si guarda alla domanda e non all’offerta.
Che cosa desiderano gli elettori, cosa ne spiega la volubilità? Gli «ismi», i grandi sistemi di idee, sono sempre stati patrimonio delle élite. Tuttavia, a lungo persino il cittadino più distante dalla politica quando andava a votare sentiva di dover dichiarare una appartenenza.
Oggi non è più così. Governanti e governati coltivano il mito di una politica «pragmatica», capace di risolvere problemi man mano che questi si presentano. Il politico non chiede di meglio che liberarsi dal fardello dell’ideologia, la quale nel bene e nel male era un elemento di prevedibilità: ci consentiva di immaginare senza grosso sforzo cosa avrebbe fatto e cosa non avrebbe fatto un certo partito.
Il guaio è che i problemi che l’elettore vorrebbe che il decisore risolvesse vanno un po’ oltre la buona amministrazione. Dall’immigrazione ai cambiamenti climatici, l’agenda politica è piena di temi sui quali i governi, nonostante controllino quasi metà del prodotto interno lordo, possono far poco. In alcuni casi si tratta di questioni che richiederebbero un ampio coordinamento internazionale. Ma proprio l’ampio coordinamento internazionale avrebbe bisogno di regole e procedure, che mal si conciliano con l’urgenza di risultati immediati. In altri casi la politica può produrre decisioni importanti, ma non benefici di breve periodo. È il caso delle cosiddette «riforme strutturali», i cui effetti è improbabile si realizzino entro la prossima scadenza elettorale. Proprio per questo molto spesso non si fanno.
Non è neppure detto che se i leader godessero di maggiore potere discrezionale, i governi funzionerebbero meglio. Siamo impressionati dalla duttilità delle aziende private, più veloci e reattive nell’adattarsi alle situazioni che cambiano. Ma le imprese operano sulla base di un unico obiettivo: fare profitto, selezionano il loro personale di conseguenza, si misurano coi loro consumatori e non con la totalità della società. Il «prodotto giusto» può migliorare strepitosamente la vita di chi lo apprezza, ma non necessariamente peggiora la vita di tutti gli altri, come può fare una decisione politica sbagliata.
Ognuno di noi elettori ha una percezione comprensibilmente parziale dei problemi. Il potere di esprimere un voto, una volta ogni cinque anni, difficilmente giustificherebbe l’investimento di tempo e risorse necessario per maturare opinioni solide. Il flusso continuo di immagini e informazioni a cui siamo esposti stimola giudizi emotivi più che riflessioni ponderate. Ormai la partecipazione diretta all’autogoverno anche di piccole comunità è un’esperienza sempre più limitata, il che consolida l’estraneità a prassi e meccanismi della politica. Abbiamo forti aspettative su come debba finire il film, ma siamo tutti spettatori.
È fatta così la domanda con cui si confronta l’offerta politica. I leader tendono perciò a essere sempre sul pezzo, al costo d’essere superficiali. Sono talmente bravi nel fare promesse, che per forza non riusciranno a mantenerle tutte e nei tempi previsti. Per questo il primo partito è e sarà sempre più quello dei delusi.
da La Stampa, 24 luglio 2017