La golden power, recentemente estesa dal Decreto Brexit nel caso degli investimenti nel 5g, ha le stesse caratteristiche del tocco di Mida: trasforma in oro tutto quello che sfiora, ma in tal modo rappresenta una maledizione per chi ne dispone. Travolto dalle polemiche sulla firma del Memorandum of Understanding sulla Via della Seta, il Governo ha pensato bene di mostrare i muscoli prendendo un piglio anti-cinese. Le nuove norme, infatti, da un lato ampliano l’ambito di applicazione della golden power classificando le reti di nuova generazione come strategiche per la sicurezza nazionale, dall’altro ne estendono la portata. L’esecutivo adesso avrà poteri speciali non solo in materia di passaggi proprietari, ma addirittura in relazione a “contratti o accordi aventi a oggetto l’acquisto di beni o servizi relativi alla progettazione, alla manutenzione e alla gestione” delle reti 5g “ovvero l’acquisizione di componenti ad alta intensità tecnologica”, nel caso in cui i fornitori siano soggetti extraeuropei.
L’ossessione per i settori “strategici” non è certo un’esclusiva del Governo “sovranista”: l’attuale disciplina della golden power venne introdotta nella scorsa legislatura, peraltro in un contesto in cui l’obiettivo non era quello di sbarrare la strada a qualche emissario dell’Estremo Oriente ma ai nostri “cugini” transalpini (Vivendi). Non sorprendentemente, le opposizioni in questo caso non solo non hanno criticato l’interventismo governativo, ma anzi hanno accusato l’esecutivo di essersi mosso troppo tardi e senza sufficiente vigore. Al fondo c’è una duplice presunzione: che un soggetto nazionale sia in qualche modo più affidabile di uno straniero, e che assegnare al Governo la facoltà di interferire con la proprietà o la gestione di alcuni asset rappresenti un elemento di certezza e non, invece, un ostacolo. Intendiamoci: è comprensibile che i Governi vogliano vederci chiaro sui comportamenti di imprese estere, quando provengono da Paesi non democratici o addirittura hanno nel loro capitale forme di partecipazione o controllo pubblici. Ma non serve, a tal fine, assegnare una sorta di diritto di veto sulla gestione degli asset di volta in volta ritenuti strategici: per definizione, la sicurezza nazionale rappresenta il dominio più proprio dei pubblici poteri.
Viene il dubbio che l’attributo della strategicità non rifletta specifiche caratteristiche di un certo settore, quanto piuttosto l’incapacità’ dell’esecutivo di abbandonare il controllo di questi beni, anche se formalmente lo ha fatto. Una prosecuzione della politica industriale con altri mezzi, insomma. Da un certo punto di vista, questi poteri sono persino peggio della proprietà pubblica, perché consentono al Governo di intervenire in maniera simile in assenza, però, di trasparenza e in modo capriccioso. Il punto sta proprio qui: ponendo certi asset e la loro gestione in un limbo né pubblico né privato, la mera esistenza della golden power li renderà meno contendibili e finirà per scoraggiare investimenti e innovazione. Il potere di veto è di fatto un potere di indirizzo. L’esperienza con le gestioni pubbliche, in Italia, non è tale da lasciar dormire sonni tranquilli, ora che sappiamo che il Governo si è preso un altro pezzetto di libertà d’impresa.
27 marzo 2019