Premessa. Quando la pressione fiscale si avvicina alla metà del Pil, chiunque abbia un minimo di istinto di sopravvivenza è favorevole a qualsiasi taglio alle tasse, quale che sia l’imposta che ne è oggetto e quali che siano le motivazioni del politico che lo promuove. Per questo ci rincuora la determinazione con cui Matteo Renzi torna ad annunciare l’abolizione di Imu e Tasi.
Si tratta però di una fonte d’introiti di cruciale importanza per i Comuni. È meglio finanziare le amministrazioni locali in modo diretto e trasparente anziché con trasferimenti. Comunque paghiamo sempre noi, non c’è scampo. Solo che in un caso si versa apertamente un obolo e si può così ragionare su quel che ci viene in cambio, nell’altro no.
C’è un problema di coperture, che senz’altro il ministro Padoan ha ben presente. Il governo deve in primo luogo evitare che scattino le clausole di salvaguardia, leggi aumento dell’Iva. Si parla di 5 miliardi raggranellati con la spending review: troppo poco, per reggere le promesse renziane. Si spera che l’Europa ci consenta di aumentare il disavanzo? Se davvero la ripresa è a portata di mano, proprio questo sarebbe il momento di accelerare la correzione dei conti pubblici. Noi italiani tendiamo a mettere ordine nella casa comune solo se costretti: cioè nel pieno delle crisi. Il manuale del buon keynesiano consiglierebbe di fare l’aggiustamento di finanza pubblica nella fase espansiva del ciclo, per evitare di soffrirne troppo. La classe politica finisce sempre per adottare manovre pro-cicliche: spinge l’economia con entusiasmo quando la strada è in discesa, tira la cinghia giusto se non c’è alternativa.
Per Renzi la priorità oggi è un’altra: rinsaldare un legame personale con ampi settori del corpo elettorale. Eliminare l’Imu serve allo scopo.
Colpisce però come dal suo vocabolario sia scomparsa una parola: impresa. Ha ragione il premier: la gente non coglie granché delle «polemiche sul Pil che cresce poco». Le persone capiscono che c’è «la ripresa» se il figlio trova lavoro, se vedono aumentare le proprie attività, se aprono nuovi esercizi commerciali. La concretezza, elettoralmente premiante, della crescita sta nella diffusione di un senso di rinnovata prosperità.
Ridurre il carico fiscale aiuta: si restituisce reddito ai cittadini. Questo è altrettanto vero per le imprese. Per un’azienda pagare più tasse, significa non poter usare quei quattrini per investimenti produttivi. Mentre l’abolizione dell’Imu è molto visibile, perché non c’è sostituto d’imposta e ci tocca pagarla sull’unghia, i benefici di una sforbiciata all’Ires sono meno chiaramente avvertiti. Si capisce perché Renzi scommette sull’una e non sull’altra.
Ma colpisce che non pensi ad un’ovvia alternativa. Nel mese di luglio, «La Stampa» ha pubblicato una lettera di un ristoratore di Torino, William Santarelli, che aveva rinunciato a chiedere il permesso per un dehors, esasperato per la complessità amministrativa di un’operazione così banale. Chi vuole posizionare qualche tavolino all’aperto ritiene di incontrare una domanda. Senza, perde una possibilità di «crescere».
Moltiplicate per mille ed avete l’Italia: un Paese dove la creatività imprenditoriale inciampa sui più fantasiosi ostacoli burocratici.
Soprattutto per le imprese medie e piccole, gli adempimenti amministrativi sono l’equivalente di un’imposta: essere «in regola con le regole» costa, sia in denaro (per la consulenza dei professionisti) che in tempo degli imprenditori. Semplificare le norme equivale a comprimere i costi di questa natura. Liberalizzare, non diversamente, dovrebbe servire a ridurre gli spazi del diritto pubblico per allargare quelli del diritto privato, eliminando complessità artificiose.
Nonostante la determinazione di un ministro «industrialista» come Federica Guidi, sappiamo che il Ddl concorrenza langue e rischia di essere ulteriormente annacquato alla riapertura dell’attività parlamentare. E di semplificazioni il governo ha persino smesso di parlare. È bello che Renzi prometta un’Italia «più libera». Un Paese più libero è un Paese in cui fare impresa è un po’ meno difficile.
Da La Stampa, 27 agosto 2015