La verità che manca su Mps: no alternative alla privatizzazione

È bene che un'azienda privata gestisca con profitto un servizio che per lo Stato è un peso che può essere gravoso

29 Ottobre 2021

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Economia e Mercato

“Le Fondazioni possono detenere partecipazioni di controllo solamente in enti e società che abbiano per oggetto esclusivo l’esercizio di Imprese Strumentali”. E’ singolare che, con tutto quello che è stato scritto in questi giorni sulla vicenda Montepaschi-Unicredit nessuno, a meno di mia distrazione, abbia ricordato che cosa recita il comma 1, art. 6 del decreto legislativo 17 maggio 1999 n. 153. Perché la Fondazione, frankensteiniana creatura della legge Amato, per essere proprietaria della banca senese, ha posseduto la maggioranza assoluta delle azioni del Monte dei Paschi di Siena per più di due decenni, fino al 2012. Posso testimoniare che in tutto quel tempo l’anomalia venne più volte rilevata e segnalata.

Purtroppo, nonostante le estenuanti discussioni su quella legge, a nessuno venne in mente di mettere la norma di chiusura: e se, avendo una partecipazione di controllo, non vogliono disfarsene, che cosa succede? Nulla: a Siena la Fondazione ha continuato a nominare gran parte del consiglio di amministrazione della banca, compreso il presidente e l’amministratore delegato. E siccome a Siena la nomina dei vertici della Fondazione era appannaggio della politica locale, la banca Monte dei Paschi di Siena ha continuato a essere pubblica fino a vent’anni fa. Pubblica non nel senso che era proprietà del ministero dell’economia, ma nel senso che veniva gestita nella logica e seguendo gli interessi della politica: e si sa quale “politica” fosse dominante a Siena, e meglio di tutti dovrebbe saperlo Enrico Letta, senatore recentemente eletto in quel collegio.

Quei politici sono nei ritratti di famiglia del partito di cui è segretario. Quando lo si sente porre come condizione per la vendita la conservazione della “senesità” dell’istituto, vengono, a essere gentili, i brividi: che Letta lo sappia o no, a rovinare la banca sono state quelle gestioni. Quella è stata la “senesità”, e da ben prima dell’acquisizione di Antonveneta nel 2007. Chi pensa a un futuro pubblico della banca, dimentica che essa è stata sempre pubblica: locale o statale, la logica è sempre la stessa. Lo si pensa per il lignaggio di quella che, come stucchevolmente si ripete, è la banca più antica del mondo, come per la livrea di Alitalia. In realtà conta solo quanto costano oggi e quanto potrebbero fruttare domani.

Il prolungarsi delle trattative è stata una manna per chi si esercita a immaginare alternative, che ovviamente postulano l’entrata in gioco di altri soggetti. Merger and acquisition è mestiere da professionisti strapagati: calcolano solo costi e ricavi, non gli interessa l’eleganza degli assetti, gli equilibri di poteri che tanto piacciono a questi “allenatori della nazionale”. Per un certo periodo il “piano regolatore” fu una tentazione anche per chi aveva ( o credeva di avere) il potere di realizzarlo: oggi, per fortuna, non ci pensa più nessuno.

Il calo della quotazione di Unicredit all’annuncio della rottura delle trattative, per alcuni è la dimostrazione che il governo stava “svenden do” un suo tesoro. Semplicemente, nei giorni passati la quotazione rifletteva la probabilità che Orcel spuntasse condizioni favorevoli: cioè che facesse il suo mestiere. Ma dato che anche il titolo Mps ha perso, il mercato ci sta dicendo che l’operazione non crea poi tutto il valore che si pensava. Il bene in questione è sul mercato da tanto, tutti potevano fare la loro offerta, da soli o in coppia, con qualsiasi insieme di condizioni: se solo l’offerta di Unicredit è stata ritenuta meritevole di essere discussa, come si fa a dire che si sta per “svendere”?

Il governo, facendosi dare più tempo da Bruxelles, spera di spuntare condizioni migliori. Speriamo ci riesca, perché è bene che un’azienda privata gestisca con profitto un servizio che per lo stato è un peso che può essere gravoso. A differenza di quel che recita il noto adagio, qui bisogna che il danno cessante per il venditore si accompagni al lucro emergente dell’acquirente. L’interruzione della trattativa sarebbe “a protezione del contribuente”, ha detto il ministro dell’economia. Ma poiché le alternative che la politica sta suggerendo (il sindaco di Siena, i 5 Stelle con l’onorevole Carla Ruocco) sarebbero ad ogni evidenza un disastro per il contribuente, gli dovrebbe essere chiaro che non ci sono alternative alla privatizzazione. Ma a condizioni diverse: a quelle attuali, a rispondere alle sue sollecitazioni è stato solo Unicredit.

da Il Foglio, 29 ottobre 2021

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