Lavoratori e imprese prigionieri delle leggi

Da un lato il Jobs Act allarga taluni spazi di contrattazione, dall'altro ne chiude

2 Marzo 2015

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Massimo D’Antona e Marco Biagi erano due giuslavoristi: e furono uccisi il primo nel 1999 e il secondo nel 2002 da terroristi di estrema sinistra. Basta questo richiamo evidenziare come il diritto del lavoro si collochi, nel nostro Paese, al centro di forti tensioni ideologiche. E il riferimento a quei momenti drammatici della nostra storia civile aiuta pure a comprendere perché è stato tanto macchinoso il processo che ha portato all’approvazione dei primi due decreti attuativi di quella riforma del mercato del lavoro (il cosiddetto “Jobs Act”) che ora inizia a produrre qualche effetto. È ancora presto però per dire se gli aspetti positivi prevarranno su quelli negativi, oppure se non sarà l’opposto.

Sul piano politico, la vertenza tra le due sinistre (quella “di governo” di Matteo Renzi e quella “di opposizione” interpretata soprattutto dal leader della Fiom, Maurizio Landini) ha riproposto il contrasto ben noto tra chi ritiene che l’economia abbia proprie leggi e chi invece pensa che sia possibile creare posti anche senza sviluppo e ignorando le esigenze delle imprese, che hanno costantemente bisogno di ripensarsi, assumere e licenziare, modificare i rapporti di lavoro e via dicendo. Con la riscrittura dell’articolo 18 nei casi ordinari (quando, in particolare, non si è di fronte a comportamenti discriminatori) l’azienda che vuole licenziare potrà farlo, purché compensi in termini economici chi perde il posto.
Il dipendente non è insomma più reintegrato, ma ottiene unicamente una riparazione di tipo monetario. Questo può permettere maggiore flessibilità e favorire assunzioni, dato che viene meno ogni elemento di perpetuità nel rapporto di lavoro.Abbiamo insomma un contratto a tutele crescenti che non assicura ai neo-assunti la medesima protezione data ai lavoratori ordinari e quindi può spingere le imprese ad avere nuovi dipendenti. La speranza del governo è che vi siano meno garanzie, ma anche più occupati.

La polemica ideologica
La polemica ideologica che ha opposto “realisti” e “utopisti” in tema di licenziamento ha però creato una sorta di nebbia che ha coperto altri aspetti importanti della riforma e dei due decreti attuativi: elementi che sono invece destinati a pesare in maniera significativa sulla vita di molti. È ad esempio pericolosa la decisione di introdurre un nuovo sostegno al reddito per i disoccupati involontari. Con grande buonsenso, molti anni fa Milton Friedman rilevò che se si tassa chi lavora e al contrario si danno soldi a chi è disoccupato, non ci si deve poi sorprendere se cresce il numero dei “senza lavoro”.
Questa scelta rischia allora di essere devastante per l’occupazione, oltre che perle casse pubbliche. Per giunta, tutto ciò è fatto nel momento in cui si è deciso di cancellare l’istituto dei co.co.pro.: i collaboratori coordinati a progetto.
Una trappola concettuale Secondo Renzi e il ministro Giuliano Poletti, l’abolizione di tale forma di impiego precario porterà a moltiplicare i contratti a tempo indeterminato, ma questo è tutto da dimostrare. Lo stesso governo che tanto ha polemizzato con i demagoghi avversi a ogni cambiamento è poi caduto in una trappola concettuale molto simile, quasi immaginando che una legge possa creare posti. L’eliminazione di quelle figure contrattuali, infatti, è figlia dell’illusione che si possa dettare alle aziende quali rapporti devono intrattenere con i collaboratori. Il risultato è che alcuni di loro verranno assunti, altri probabilmente si lanceranno nel mare periglioso delle partite Iva (offrendo dall’esterno la collaborazione all’impresa) e molti altri, però, non vedranno rinnovare il contratto e non troveranno alcuna altra forma di reddito.

A quale destino vanno incontro, ad esempio, tutti quei contratti a progetto che non sono regolamentati da contratti collettivi e che comunque producono ricchezza? Siamo proprio sicuri che le aziende interessate decideranno di assumere tutti a tempo indeterminato? È proprio irragionevole chi teme che l’esito sarà una consistente riduzione del numero dei posti di lavoro? Come ha dichiarato Giuliano Cazzola, davvero «sembra avventuroso pensare di liquidare la partita dicendo che una gran parte di questi lavoratori diventeranno lavoratori a tempo indeterminato». Il governo medesimo sa bene come la riforma possa creare disoccupazione e non a caso ha previsto incentivi di natura fiscale, che senza quella consapevolezza non sarebbero in alcun modo giustificati: anche perché falsano la competizione tra imprese. Ma questo legislatore che delinea scenari e s’immagina di compensare con una mano quello che sta togliendo con l’altra ha tutta l’aria di un apprendista stregone: un pianificatore che non può conoscere il futuro e che appare ignaro della complessità di un’economia guidata in larga misura dalle innumerevoli decisioni quotidiane assunte da chi consuma, produce e vende.

In sostanza, se da un lato il Jobs Act allarga taluni spazi di contrattazione (aiutando il mondo del lavoro a trovare soluzioni organizzative migliori), dall’altro, però, ne chiude altri e in particolare fa compiere qualche passo indietro rispetto a ciò la legge Biagi del 2003 aveva introdotto. Più in generale, sul piano culturale questi decreti risentano fortemente di una logica anti-mercato diversa da quella dell’e strema sinistra più ideologizzata, ma non per questo non priva di pericoli. L’impianto continua infatti a prevedere istituti ben definiti e forme contrattuali prefabbricate, rigettando l’ipotesi di una vera autonomia negoziale.
Una volta di più, avremo imprese e lavoratori che vorrebbero “incontrarsi”, ma che non possono farlo perché il contratto che li soddisferebbe non è previsto dalla legge. Perché questo diritto del lavoro non si limita a escludere alcune soluzioni, lasciando che quanto non è espressamente proibito sia ammesso. Esso invece ritiene opportuno definire quali contratti sono possibili. Tale ricerca di una “semplificazione” delle forme contrattuali si mette però di traverso a un’evoluzione della società globale che, al contrario, esige forme di relazione economica sempre più “à la carte”.

Un cambiamento a metà
Nel quadro di cambiamenti ormai accelerati, la pretesa dei legislatori di guidare dall’alto l’evoluzione dei rapporti di lavoro è ingiustificabile. Finora molti si sono illusi che un riformismo socialdemocratico, determinato a sbarrare la strada a illusioni di stampo peronista e a nostalgie da socialismo reale, potesse bastare a rimettere in piedi la situazione. La drammatica situazione in cui viviamo ha però bisogno di ben altro. E c’è da augurarsi che chi può intervenire lo faccia, comprendendo come un realismo a metà incapace di restituire la libertà contrattuale alle parti e alla loro libera negoziazione sia oggi del tutto inadeguato ad aiutare la ripresa.

Da La Provincia, 1 marzo 2015

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