In tutta Europa, il Quarantotto rappresenta un anno fondamentale, perché è in quello snodo storico che taluni mutamenti spirituali consolidatisi all’interno della cultura politica iniziano a produrre effetti rilevanti: cambiando lo scenario e ponendo le premesse per un mondo nuovo. Nonostante lo sconquasso causato dalla Rivoluzione francese e dall’espansionismo napoleonico, l’Europa della Restaurazione continuava a guardare al futuro, ponendo al centro le libertà individuali e recuperando fiducia nel progresso e nelle riforme. Il ritorno dei monarchi alla guida dei governi d’Europa aveva soddisfatto solo in parte le attese dei controrivoluzionari, dato che larga parte dell’opinione pubblica continuava a ritenere necessario garantire una più ampia salvaguardia dei diritti fondamentali.
In Italia come nel resto del Vecchio Continente, i moti del 1820 e del 1821 (così come quelli che avranno luogo dieci anni dopo) erano stati orientati primariamente a ottenere trasformazioni in senso costituzionale: a vincolare e limitare il potere. Pure l’idea di Italia, i cui confini erano allora tutt’altro che ben definiti nella stessa mente di patrioti, era in primo luogo associata a questa riconquista di libertà perdute. Quando nel 1830, in Francia, viene chiamato al trono Luigi Filippo d’Orléans e s’afferma una monarchia costituzionale, appare evidente come il senso della storia possa ancora essere percepito secondo logiche che mirano a controllare il potere e continuano a parlare di libertà riferendosi (primariamente) ai singoli. Il clima, però, sta ormai cambiando. In questa prima metà del XIX secolo, nazionalismo e socialismo vanno avanzando un po’ ovunque. Sempre più la libertà è associata alla comunità nazionale, mentre alle nuove generazioni lo spirito dei Lumi appare astratto, privo di storicità, incapace di scaldare i cuori. Con l’imporsi delle idee socialiste, l’individuo declina e lascia il posto alla classe, mentre l’ideale della libertà cede di fronte a quello dell’eguaglianza e della partecipazione. Ma i moti milanesi del ’48 precedono ancora, in larga misura, le trasformazioni ideologiche.
Quando tra il 18 e il 22 marzo la capitale del Lombardo-Veneto insorge contro Vienna, all’origine della ribellione vi sono motivi di altra natura. Nella borghesia imprenditoriale cittadina c’è una crescente insofferenza per un’amministrazione non di rado ottusa e poliziesca. In quel momento, il progetto di un’Italia affrancata dal dominio straniero interpreta con efficacia sua figura più illustre. Per giunta, in quei primi mesi ’48, tutta Europa — da Palermo a Vienna, a Berlino — si solleva per chiedere più garanzie e un potere non arbitrario.
Le giornate milanesi che obbligarono l’esercito guidato dall’anziano generale Radetzky a lasciare la città oggi sono lette sulla base degli sviluppi successivi: sono divenute solo un episodio entro quella che è stata ribattezzata la Prima guerra d’indipendenza, ossia un passio cruciale (in sé fallimentare, ma denso di promesse) verso l’unificazione realizzata dalla dinastia dei Savoia. In realtà, nella Milano del ’48 solo una parte della mobilità aspirava ad unire la Lombardia al Piemonte. Certamente avevano una visione ben diversa quanti erano stati persuasi dalla propaganda di Mazzini e, soprattutto, gli eredi di quell’Illuminismo riformista che aveva in Carlo Cattaneo la sua figura più illustre. Quando si comprende il ruolo centrale che Cattaneo (insieme a Enrico Cernuschi, Pompeo Lista Biumi e alcuni altri) ha giocato nelle Cinque Giornate, è facile vedere come i suoi ideali siano stati traditi. Non c’è solo da rilevare che l’Italia è stata fatta monarchica e non repubblicana, centralizza (sul modello francese) e non federalista (come gli USA). Si tratta anche di comprendere come lo spirito stesso del Romanticismo patriottico non abbia interpretato i sogni del fondatore del Politecnico e di molti dei milanesi insorti.
Quando il 17 marzo, diffusasi la notizia della rivolta viennese, un gruppo di cittadini si trova davanti al palazzo del governatore lo fa per chiedere libertà di stampa e, con essa, la possibilità per Milano di amministrarsi da sé. Poi la situazione precipita, ma anche nel corso degli scontri la tesi di chi vuole un intervento del Piemonte a sostegno dei rivoltosi (il conte Casati, a esempio) inizialmente viene respinta. Cattaneo e con lui molti altri non vogliono lasciare il dominio viennese per subire quello piemontese. In seguito questa posizione sarà però abbandonata e prevarrà la fazione filo-sabauda: con il risultato che Milano e la Lombardia saranno annesse. Prima di essere sconfitti sui campi di battaglia, i sogni di Cattaneo erano stati spazzati via da quell’incrocio di interessi e miti che, negli anni successivi, consegnerà tutta l’Italia nelle mani di Vittorio Emanuele II.
In questo senso, Cattaneo è davvero l’eroe tragico delle Cinque Giornate e del Risorgimento, dai cui esiti egli prenderà nettamente le distanze: rifiutando ogni ruolo nella nuova Italia unita, fino al punto da trovare rifugio in quel pezzo di Lombardia svizzera che è il Canton Ticino.
Come ebbe a sottolineare in modo assai efficace Indro Montanelli, «Cattaneo non sentiva la “nazione” e odiava il Piemonte, per il suo regime accentrato e statalista, più dell’Austria che nazione non era». Egli aveva anche pensato a un Lombardo-Veneto affrancato dal potere di Vienna, ma federato con quell’universo mitteleuropeo in cui esso si trovava e nel quale aveva comunque rinvenuto una propria dimensione. E quando poi prese atto che l’impero degli Asburgo era troppo refrattario a ogni cambiamento, immaginò una Penisola italiana basata sull’autogoverno delle città e delle regioni. D’altra parte, Cattaneo era un cosmopolita e un individualista: l’ultimo erede della tradizione dell’Illuminismo lombardo, giunta a lui grazie alla lezione del suo maestro, Giandomenico Romagnosi. Credeva in una società basata sul libero mercato e sulla protezione dei diritti, e non avrebbe mai apprezzato quell’insieme di tributi, divieti e progetti espansionistici — più o meno fallimentari — che saranno al centro della monarchia sabauda all’indomani dell’unificazione.
É anche interessante rilevare come, negli stessi giorni delle eroiche giornate milanesi, la folla veneziana costrinse il governatore della città lagunare a liberare Daniele Manin, Nicolò Tommaseo e gli altri arrestati. Prenderà il via quella Repubblica di San Marco che, come le Cinque Giornate, continua a sollevare interrogativi: perché — anche in questo caso — non è facile dire quanto Manin sia ascrivibile a quel processo che porterà al Regno d’Italia e quanto, invece, egli volesse operare una sorta di “rinnovamento” delle antiche libertà che avevano caratterizzato Venezia. Certo egli sognava una federazione repubblicana italiana ben distante dal Regno che prenderà forma nel 1861.
Quando il 22 marzo Manin afferma, in piazza San Marco, che tra tutti i governi «il più adatto ci sembra quello della repubblica che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti», è chiaro come egli sia consapevole che Venezia è Venezia. Senza dubbio voleva collegare la battaglia per l’indipendenza veneta alle altre lotte che avevano luogo in tutta Italia, e puntava a una qualche unificazione, ma al pari di Cattaneo immaginava un’Italia ben più basata sul diritto di autogovernarsi, oltre che repubblicana.
La figura di Manin — convinto che si potesse guardare al passato per dirigersi verso “libertà nuove” — ci aiuta a comprendere come, in fondo, quella visione policentrica e autonomista che è al cuore della filosofia sociale cattaneana fosse radicata in tutto il Lombardo-Veneto. L’Italia stava però dirigendosi verso retoriche mazziniane e poi crispine, e stava iniziando a progettare un proprio futuro quale potenza tra le potenze (quale Machtsstaat), anche senza mai riuscire davvero a conseguire tale obiettivo. Ma almeno nel marzo del 1848 c’era ancora chi sperava di ridare vita alle libertà municipali, costruendo istituzioni vicine ai cittadini al fine di fondare una società pluralista, tollerante, aperta.
Il Risorgimento volterà le spalle al federalismo liberale di Cattaneo, risolvendosi in un compromesso tra il nazionalismo sociale di Mazzini e la Realpolitik di Cavour. Lo spirito civico dei milanesi verrà marginalizzato e, nel corso di questo processo, la metropoli lombarda sarà chiamata a fare i conti con un Regno d’Italia voluto e realizzato altrove.
Anche questo contribuirà, nei decenni a venire, a fare di questa città la meno italiana delle città d’Italia.
Da Il Giornale, 10 maggio 2017