La Robin Tax, come suggerisce il nome, è stata forse l’imposta più manifestamente ideologica introdotta nel nostro sistema tributario negli ultimi anni. Togliere ai «ricchi» – alcuni operatori attivi nel settore dell’energia – perché fanno troppo profitto, affinché i «poveri» siano appagati, ancorché nel solo spirito.
Poco importava al governo, e all’opinione pubblica che ne veniva solleticata, far mostra di una totale arbitrarietà nel determinare la misura in cui un profitto diventa “extra” e quindi tassabile (tanto che la maggiorazione dell’aliquota dell’IRES è stata aumentata negli anni), poco importava soprattutto che l’onere d’imposta potesse essere scaricato sui prezzi finali, con buona pace dei tentativi di controllo dell’autorità per l’energia, come documentato anche dall’apposito rapporto al Parlamento.
Contava invece non solo aumentare il gettito tributario, ma soprattutto rendere esemplare che il troppo guadagno dev’essere purificato dalla mano redistributiva dello Stato, senza preoccuparsi, peraltro, di dove e come esso ridistribuisca.
Questioni di principio e questioni tecniche, dovute appunto all’efficacia del controllo dell’effetto di traslazione sui consumatori e sull’impatto nell’attività anche di investimento del settore energetico, sono state inizialmente offuscate dalla stessa magistratura, che anzi ha ritenuto la Robin Tax, come ha scritto il Consiglio di Stato, persino rispettosa del principio di progressività delle imposte di cui all’art. 53 della Costituzione.
Ora, finalmente, la Corte costituzionale ha detto esattamente l’opposto. È proprio quell’art. 53, così raramente invocato a presidio del contribuente, che la Robin Tax ha violato e per il quale, quindi, è stata dichiarata incostituzionale. Una buona sentenza, prima che per il settore energetico, per il rispetto dei principi cardine della potestà impositiva, legati in primo luogo alla inadeguatezza e irragionevolezza di un’imposta che si applica all’intero reddito di impresa e che è comunque inidonea a conseguire quelle finalità solidaristiche che sole dovevano giustificare una misura così patentemente iniqua dal punto di vista tributario.
La sentenza della Corte è stata tuttavia criticata circa i suoi effetti non retroattivi. L’annullamento, infatti, varrà pro futuro, senza dare diritto alla restituzione di quanto già versato allo Stato. Lo squilibrio di bilancio che ne deriverebbe unito alla difficoltà di separare l’onere tributario effettivo dall’effetto traslativo avvenuto a carico dei consumatori ha spinto la Corte una decisione irrituale ma non unica nel suo genere.
Un effetto che non può piacere, in punto di principio. Ma fermarsi qui, senza considerare il valore che avranno motivazioni forti a tutela del contribuente e additando alla Corte le colpe del legislatore, è forse poco utile alla lettura di una sentenza innovativa nel dare finalmente alla capacità contributiva la valenza di limite al potere impositivo dello Stato.
Le cicatrici, anche quando le ferite si richiudono, restano visibili. L’effetto non retroattivo è una brutta cicatrice di una lesione prodotta da legislatori con scarsa cultura giuridica, ed eccessiva passione per i sentimenti più populisti e illiberali della pubblica opinione.