Le donne in Arabia Saudita possono finalmente guidare la macchina. Dalle nostre parti hanno sempre potuto farlo, benché sul modo di condurre si ironizzi di continuo.
È evidente che tra il divieto e l’ironia della donna al volante, magari ingiusta e molesta fin quasi ad essere discriminatoria, vi sia una differenza abissale. Nella invalsa retorica di genere, tuttavia, tale distinzione è sfumata. Spesso, infatti, la rivendicazione di pari opportunità o la denuncia di discriminazioni e molestie hanno poco a che fare col principio giuridico di parità di trattamento, e molto con il valore culturale del rispetto.
La diversa considerazione tra uomini e donne, che è sempre esistita nella nostra come nelle altre civiltà, può essere di due tipi. Una è la disparità con cui la legge tratta i due sessi, a parità di altre condizioni; l’altra, è la differenza con cui le persone stesse trattano i due sessi.
L’emancipazione femminile riguarda tanto l’una quanto l’altra distinzione. Rivendicare una pari considerazione giuridica non è stato meno importante che rivendicare una pari considerazione sociale e culturale. Per una donna, ma anche per una società più giusta e civile, ottenere il diritto di voto è un passo fondamentale tanto quanto essere trattata con rispetto nell’ambiente di lavoro. È per questo che la storia dell’emancipazione delle donne è fatta di momenti e conquiste non solo legali, come l’abolizione della dote, ma anche sociali, come poter indossare la minigonna senza scandalo. Tuttavia, si tratta di piani discriminatori diversi.
Nel primo caso, è la legge, quindi la regola di comando a cui non possiamo sottrarci, che pone una barriera. Impedisce alle donne, in quanto tali, di sviluppare la propria personalità con le stesse possibilità e condizioni di partenza che hanno gli uomini: le ostacola nella possibilità di esprimersi in famiglia, nella società, nel lavoro con identica libertà con cui possono farlo gli uomini.
In Italia, oggi, le donne possono votare, possono accedere alle cariche pubbliche, possono fare i magistrati, condividono la responsabilità dell’educazione dei figli con i padri. Ma non è sempre stato così. Anzi, è solo nel Novecento che, riforma dopo riforma, sono stati eliminati i limiti che ostacolavano l’autonomia di azione e di opinione delle donne, in quanto ritenute tradizionalmente succubi dell’influenza degli uomini, se non della luna.
Il divieto di guidare per le donne saudite, col corredo di tutti i motivi che lo hanno giustificato, appartiene a questo tipo di discriminazioni: non c’è persuasione o battaglia culturale che possa evitarlo, finché non viene eliminata la legge che, prevedendolo, non riconosce alle donne le stesse opportunità che hanno gli uomini.
Sarebbe il caso che il femminismo civettuolo in voga in Occidente tenesse a mente la differenza tra le due forme di discriminazione. La prima, prepotente e soverchiante, non consente alle donne di esprimersi, anche solo tifando allo stadio o usando lo stesso ingresso degli uomini, come persone dotate di raziocinio e di autonoma dignità; la seconda, irritante e rozza, non le tratta con lo stesso rispetto con cui tratta gli uomini a causa di retaggi culturali duri a resistere, ma non impossibili da sconfiggere attraverso il lento ma profondo lavoro dell’esempio e dell’educazione. La prima forma sottende sempre una discriminazione culturale, mentre non è vero il contrario.
È probabile che nel nostro angolo di mondo le donne abbiano tutte esperienze di episodi di discriminazione, nel senso di mancanza di rispetto. Ma è certo che hanno la libertà di scegliere di reagire, almeno nella loro singola esperienza di vita. Una libertà che fa la differenza tra le vere e le false discriminazioni e che, per affermarsi, non ha bisogno di azioni positive, quote di genere e interventi legislativi, ma solo del paziente esempio individuale.
da Il Mattino, 26 giugno 2018