Le furbizie low cost dell'anticasta

Il politico non massimizza i profitti, ma il consenso. È per questo che oggi indossa il saio del francescano.

3 Aprile 2018

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Per ora l’esito delle elezioni di marzo preoccupa soprattutto le agenzie di viaggi. Il presidente Fico per andare al lavoro prende l’autobus. La presidente Casellati ha rinunciato ai voli di Stato. Tanto per dire cose arcinote: il trionfo del Movimento Cinque Stelle, la crescita della Lega, segnalano una certa intolleranza degli italiani per la loro classe dirigente.
Si capisce che il nuovo Parlamento si attrezzi come può: è in atto una sorta di controffensiva simbolica, fatta di gesti alla Bergoglio, lasciare l’auto blu in garage per far capire che questa volta, finalmente, qualcosa è cambiato. Come la casta, anche l’anticasta ha le sue furbizie. L’attesa alla fermata dell’autobus è un prezzo modesto da pagare, per la ricompensa della popolarità. Poco importa se i risparmi di queste scelte sono più dichiarati che reali, se non utilizzare la macchina di servizio non significa che all’autista non viene più pagato lo stipendio, se gli aerei di Stato non vengono messi in vendita e costano per manutenzione e rimessaggio.
Il lampeggiante e la sirena con cui le macchine dei potenti saltano le file ci riescono odiosi. È lì, mentre siamo in coda e vediamo un codazzo di auto che ci sfreccia davanti, che ricordiamo che qualcun altro comanda e a noi tocca di ubbidire.
«La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento». Tutto sommato oggi dolore e spavento sono fuori menu (con l’eccezione, forse, di qualche tratta regionale), la seconda classe è meno cara e più confortevole, per alcune compagnie aeree è diventata classe unica. È un po’ curioso che proprio chi più apprezza le economie delle autorità in tema di trasporti di solito sia spesso poco paziente verso la «società low cost». I trasporti a prezzi stracciati debbono essere senza fronzoli per risultare profittevoli.
In altri casi, pensiamo ai voli intercontinentali, se oggi in seconda classe i biglietti sono più abbordabili che in passato è anche perché c’è chi viaggia in grande stile. Un passeggero in business class occupa (beato lui) tre volte lo spazio di uno in economica ma paga quindici volte di più. Così come al ristorante chi beve una costosa bottiglia di vino sussidia senza saperlo la cena degli astemi. È improbabile che, se nessuno volasse più in prima classe, i biglietti in «Economy» costerebbero di meno e il servizio rimarrebbe il medesimo.
In un’economia complessa, i prezzi delle cose sono più collegati di quanto appaia a prima vista. Quali beni, quali servizi comprare è una scelta che sta al giudizio dei singoli. Lo stesso vale per le imprese. Un manager in linea di massima vorrà ridurre i costi, forse però farà viaggiare con tutti i comfort i suoi dirigenti, se devono correre subito a una riunione. Queste sono decisioni che un’azienda prende con le proprie risorse, sulla base di criteri razionalmente adottati da chi la dirige.
Il politico non massimizza i profitti, ma il consenso. È per questo che oggi indossa il saio del francescano. Meglio pertanto non illudersi che l’accortezza nelle piccole spese vada di pari passo con quella nelle grandi. E’ vero che Luigi Einaudi divideva le pere con gli ospiti, al Quirinale, ma pure Benito Mussolini ci teneva a far sapere di non essersi mai portato a casa dall’ufficio nemmeno una penna. Un conto è rispettare le finanze pubbliche, altro inseguire la bella figura. Se tagliamo i voli di Stato ma rinazionalizziamo l’Alitalia, insomma, il contribuente avrà poco da festeggiare. 

da La Stampa, 3 aprile 2018

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