Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nel fine settimana ha detto che ciascuno degli “artigiani, imprenditori e lavoratori” italiani che “tutte le mattine si alza e prova a fare il suo mestiere” è “un eroe dei nostri tempi, un eroe della quotidianità”. Difficile sostenere il contrario: effettivamente l’Italia, fra tutti i Paesi industrializzati, è uno di quelli con i maggiori vincoli normativi, regolamentari e fiscali che gravano sulla normale libertà di fare impresa. A voler guardare il proverbiale “bicchiere mezzo pieno”, si può dire che perfino oggi, in un’epoca caratterizzata da spazi di manovra minimi per la politica fiscale e da una politica monetaria centralizzata a livello europeo, non mancano dunque le possibilità per rilanciare di molto la crescita italiana eliminando tali vincoli grazie alle cosiddette “liberalizzazioni”.
Liberalizzazioni che spesso, nel dibattito pubblico, vengono denigrate addirittura come aliene alla nostra cultura. Una roba da Margaret Thatcher, per intenderci. In realtà gli scritti e l’operato di uno dei più grandi pensatori italiani, Cesare Beccaria, consigliano di rivalutare – perfino culturalmente – questa opzione di politica economica. Beccaria è ricordato e studiato in tutto il mondo come uno dei più validi esponenti dell’Illuminismo. La sua opera più famosa, “Dei delitti e delle pene”, del 1764, contiene intuizioni ancora valide sulla giustizia e lo Stato di diritto in generale, sul processo penale, sulla tortura e sulla pena di morte. Quel che è meno noto è che Beccaria fu anche un pensatore economico, come ricostruisce con giusta enfasi Carlo Scognamiglio Pasini in una recente biografia (“L’arte della ricchezza”, Mondadori). Il giurista milanese, infatti, anticipò perfino il padre fondatore dell’economia politica, Adam Smith, sostenendo che la fonte della ricchezza di un Paese erano il lavoro umano e gli strumenti che ne aumentano la produttività, non le risorse naturali o l’agricoltura come volevano le vulgate mercantilistiche o fisiocratiche del tempo. Beccaria non fu solo un economista teorico. Sotto il dominio degli Asburgo, ricoprì a Milano incarichi amministrativi e di governo nell’ultimo quarto del diciottesimo secolo, sopprimendo a un certo punto le circa cinquanta corporazioni delle arti e dei mestieri che dominavano l’economia lombarda. In questo modo ridusse il potere di corporazioni che allora regolavano i prezzi mantenendoli più alti del dovuto, impedivano la concorrenza fra maestranze di città diverse, vietavano a suon di condanne penali la diffusione di informazioni sugli avanzamenti tecnologici, restringevano l’accesso alle professioni. Il superamento radicale di questi e altri vincoli che Beccaria prese di mira, secondo Scognamiglio Pasini, fu propedeutico al successivo decollo economico-industriale della Lombardia.
Ma a che punto è oggi l’Italia sul fronte delle liberalizzazioni? L’Istituto Bruno Leoni da anni tenta di misurare il grado di apertura alla concorrenza dei principali settori dell’economia. Quest’anno, nel suo Indice appena pubblicato, il think tank ha concluso che tra i 15 Stati che costituiscono il nucleo storico dell’Unione europea, l’Italia occupa l’undicesima posizione, a pari merito con Francia e Danimarca, in quanto a tasso di liberalizzazione. Al primo posto c’è il Regno Unito, al quindicesimo e ultimo la Grecia. Non mancherebbero dunque le possibilità, anche per l’attuale Governo, di rimuovere gli ostacoli all’ingresso dei singoli mercati, poi quelli che pesano sull’esercizio dell’attività imprenditoriale e infine quelli che ostruiscono l’uscita da un mercato. Non crescerebbero soltanto innovazione ed efficienza, ma anche le possibilità per i consumatori di scegliere davvero i fornitori più convenienti.
Leggi il resto su IlFoglio.it, 1 dicembre 2014