Le ragioni del Corano e quelle del Capitale

Contro l'ISIS le sole armi non bastano

17 Dicembre 2015

Il Sole 24 Ore

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il Corano è in realtà ben diverso da quello che comunemente si crede, scriveva su queste colonne Luca Ricolfi (Il terrorismo jihadista e la strategia del rospo Zen, 24 Novembre): ha precetti durissimi contro chi non si converte e non lo osserva, e, siccome è parola di Allah, non è interpretabile né modificabile. Dobbiamo rileggere il Corano se vogliamo liberare il mondo dall’islamismo  titolava  Newsweek  il 2 Dicembre.

Combattere militarmente il Califfato è essenziale: ma è probabile che il problema sussista anche dopo la sua sconfitta. Entrare nella testa del nemico è quello che fanno le polizie e le intelligence in tutto il mondo: che si tratti di individuare un serial killer, o di prevedere le mosse del terrorismo islamico. In questo caso,per entrare nella testa bisogna conoscere il Corano: quello vero.

Ma se, come suggerisce Newsweek, si tratta di interloquire con un sistema religioso e politico che fonda sull’applicazione letterale e sul terrorismo del Corano la propria strategia per ampliare il controllo locale e per attirare foreign fighters, e di confrontarsi con esso con disponibilità a discuterne, allora il discorso si fa problematico. Perché si confrontano due universi concettuali opposti: quello fondato sul Corano ha una visione trascendente del mondo; il nostro, da Machiavelli e il Rinascimento, a Hume e l’illuminismo, al positivismo, a Marx, non ha bisogno di legittimazione esterna, espunge la metafisica dal discorso filosofico e la religione da quello politico. Il capitalismo “n’a pas besoin de cette hypothèse”, è interamente secolarizzato, con la globalizzazione si estende al mondo intero, tutto è trasparente perché la tecnologia possa diffondersi. Se non ha bisogno di fondamento per legittimarsi, è inclusivo; sia verso le trascendenze, e non solo quelle della coscienza individuale, sia verso le critiche al capitalismo, anche le più radicali, anche quelle che vedono in esso una nuova teologia del mercato: sono pur sempre interne al sistema. Con l’islamismo è diverso: è possibile un dialogo tra una visione assolutisticamente trascendente ed una comprensivamente immanente del mondo?

Porsi questa domanda equivale a chiedersi se noi vogliamo considerare l’islamismo potenzialmente parte del sistema capitalistico, oppure un sistema autonomo, rimasto latente nei secoli in cui il capitalismo conquistava del mondo, ed ora risvegliatosi in forma aggressiva. Equivale a chiedersi se la strage di San Bernardino in California e quella di Colombine nel Colorado sono entrambe frutto della sindrome narcisistica-nichilista-autodistruttiva, entrambe endogene alla società che vogliono aggredire, e diverse solo per motivazioni individuali; oppure se sono due fatti ontologicamente diversi, il secondo essendo esogeno alla nostra società, la sua testa appartenendo a quell’altro mondo.

Molti di noi, io tra quelli, hanno un moto di ripulsa di fronte ai commenti e alle spiegazioni che famosi maitre à penser hanno dato dei fatti del 13 Novembre, come avevano dato di quelli dell’ 11 Settembre. Narcisi e ciarlatani, li liquida Giulio Meotti, raccogliendone i detti (Il Foglio 5 Dicembre): da Eco (i terroristi attaccano i simboli di una società che li confina a vivere nelle bidonville) a John le Carrè (le fonti del terrorismo sono le umiliazioni passate e presenti) a Derrida (siamo tutti potenziali terroristi) a Sloterdeijk (l’11 Settembre è stato un problema ai grattacieli). Però per confutarli non basta obbiettare che i terroristi di Parigi vivevano in alloggi borghesi, che 15 su i9 degli attentatori delle Twin Towers provenivano da famiglie abbienti, che il viaggio in Siria non è diverso dai”viaggi” nel mondo della droga in cui tanti ragazzi si sono persi. Se il terrorismo è una strategia per guadagnare consenso, raggiungere l’obiettivo è la motivazione del terrorista. Chi si fa saltare in aria non esprime la propria protesta, ma vuole eccitare quella degli altri, di chi è davvero povero, emarginato, disoccupato. I ghetti urbani, i campi palestinesi, la disoccupazione non sono la causa del terrorismo, ne sono la cassa di risonanza.  
E indubitabilmente esistono, sono parte del nostro mondo.

Quelle “spiegazioni” ciniche includono il terrorismo nel nostro mondo. D’altra parte nessuno si sognerebbe di considerare estranee critiche ben più demolitrici del capitalismo, si pensi solo a Marx, o sanguinosamente radicali, come negli anni di piombo. Quelle “spiegazioni” sono inaccettabili, ma rifiutarle pone un problema ancora più serio: perché comporta lo scontro tra trascendenza e immanenza, tra Corano e capitalismo. Che si chiama guerra di religione.

Il Sole 24 ORE, 15 dicembre 2015

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