16 Gennaio 2018
Il Sole 24 Ore
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
In questo clima pre-elettorale, in cui abbondano proposte e programmi che si direbbero fantasiosi se non fosse che suscitano aspettative nei cittadini perché siano realizzate, e timori nei mercati che lo siano davvero, è positivo leggere la proposta firmata da due personaggi di spicco, del governo e del sindacato.
Nella proposta si premette che il deficit non dovrà superare lo 0,9%, e che scaricare i costi delle “riforme” sulla fiscalità generale è “l’equivoco alla base di decenni di irresponsabilità finanziaria”.
Ma quando poi si passa a leggere i contenuti del “Piano industriale per le competenze” di Carlo Calenda e Marco Bentivogli (Il Sole 24 Ore 12 gennaio 2018), ci si accorge che esso pure è un prodotto della campagna elettorale, tanta è l’attenzione a rispettare i sacri totem e ad allinearsi ai luoghi comuni della sinistra più tradizionale.
Solo in questo contesto si può pensare che il modo di colmare il nostro gap nelle competenze digitali rispetto agli altri Paesi, pure anch’essi in ritardo rispetto alle esigenze delle aziende, sia «il riconoscimento del diritto soggettivo dei lavoratori alla formazione […] e la sua definizione come specifico contenuto contrattuale». Che questo gap abbia origine (anche) dal numero degli studenti nei nostri istituti tecnici superiori – quasi la centesima parte (!) di quelli tedeschi – è evidente.
Mai però andare a cercare quali cause impediscano ai ragazzi di scegliere una formazione tecnica, essendo noto lippis et tonsoribus che essa apre più facilmente la porta all’impiego, e proporre di eliminarle: già, perché potrebbe risultare che a mancare sono gli insegnanti con quelle competenze, nonostante (o forse proprio a causa de) gli stuoli immessi senza concorso. E allora caviamocela con 400 milioni di euro aggiuntivi agli istituti Tecnici Superiori e diciamoci che in due anni moltiplicheranno per 11 il numero degli studenti.
Che la produzione tenda ad essere, come dicono con efficace espressione, «sempre più sartoriale», è noto; che «il contratto nazionale [abbia] senso se il suo ruolo resta quello di cornice di garanzia finalizzata ad assicurare il più possibile una dimensione di prossimità all’impresa» lo si dice da anni.
Basta dirlo, o anche qui si dovrebbe indicare a dito chi mette ostacoli a una riforma, questa sì, a costo zero? Benissimo l’introduzione del salario minimo, purché esso sia confinato ai «settori non coperti da contrattazione collettiva». Ora, non mancano esempi di Paesi in cui il salario minimo convive con la contrattazione collettiva, ma è fin troppo evidente che il senso profondo del salario minimo sta in una idea di protezione del lavoratore debole e nel contestuale depotenziamento del contratto collettivo nazionale (che al limite sopravviverebbe solo nella sua dimensione normativa) e di conseguenza nell’enorme spazio che si aprirebbe così alla contrattazione aziendale e locale. Una grande riforma, non c’è dubbio. Se questi ultimi, però, ne fossero i termini.
È merito del ministro Calenda avere fatto approvare per la prima volta la legge “annuale” della concorrenza. Ma la “faticosa esperienza” dovrebbe averlo convinto che «i capitoli su cui è necessario concentrarsi» non sono solo i servizi pubblici locali e le concessioni, da quelle balneari a quelle autostradali, e neppure i notai e i farmacisti: è nel Paese che alligna una cultura ostile alla concorrenza.
E il Governo non trova di meglio che incorporare nelle Ferrovie l’Anas e magari le metropolitane, e fin qualche “disservizio” locale particolarmente clamoroso? E che dire del servizio postale? È troppo funzionale agli obbiettivi colbertiani di CDP o se ne può parlare? E per la rete della banda larga, ricadere nel mito monopolistico di «concentrare lo sviluppo della rete in un unico operatore» magari «introducendo tariffe regolamentate»: ovviamente giustificate dal «carattere sistemico dell’infrastruttura».
Ma sul funzionamento della prima e massima infrastruttura del Paese, la pubblica amministrazione, non una parola, non diciamo sul suo costo diretto, che non è nella competenza del Mise, ma sul quello indiretto per interfacciarla.
Possibile che non venga in mente nessuna attività che la PA potrebbe restituire al mercato e, ancora una volta, alla concorrenza? Rifinanziare il fondo centrale di Garanzia per attivare i crediti agli investimenti delle Pmi; i 400 milioni alle scuole tecniche; il credito di imposta alla formazione; i contratti di Sviluppo per il Mezzogiorno; il Globalization Adjustment fund; la rete unica per la banda larga e l’operatore unico per le infrastrutture. Possibile che in un mondo che cambia solo la Pubblica amministrazione debba continuare a fare le stesse cose, distribuire un po’ di risorse a fondo perduto, gestire i tavoli di crisi, con interventi diretti dello Stato, senza che venga in mente nessun ostacolo da rimuovere per consentire al mercato di fare il suo lavoro, trovare i prezzi che allochino risorse dove c’è da trarne un profitto?
Sabato il Sole titolava «Corporate America riparte. Investimenti per 70 miliardi, Benefit e premi ai dipendenti». Non occorre essere trumpiani, e certi interventi, arrischiati da loro, sarebbero proibitivi da noi: ma solo una revisione della struttura degli incentivi può attivare i comportamenti individuali che fanno “ripartire” l’economia.
È anche per essere stata allevata a “piani industriali” e sussidi, se Corporate Italia è così distante da Corporate America.
Da Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2017