Governo e Parlamento non fanno che aggiungere sempre nuove norme
La settimana scorsa, il governo ha varato il primo disegno di legge annuale per le Pmi. Si tratta di un obbligo teoricamente previsto fin dal 2011, ma finora andato disatteso. Era un’occasione perfetta per rimuovere ostacoli di natura normativa e fiscale alla crescita dimensionale e all’innovazione delle imprese. Invece è stata usata introdurre nuove regole. Emblematico è il caso della nuova disciplina delle recensioni online.
La proposta è talmente surreale che vale la pena citare integralmente la descrizione che ne offre il comunicato stampa del governo: “il Ddl interviene prevedendo l’obbligo di verificare l’attendibilità della recensione, assicurandosi che questa sia realmente scritta da un consumatore che abbia effettivamente usufruito del servizio o acquistato il prodotto recensito. La disposizione definisce che il consumatore potrà rilasciare una recensione motivata entro 15 giorni dalla data di utilizzo del servizio. L’impresa interessata potrà richiederne la cancellazione nel caso in cui il giudizio risulti falso o ingannevole, o qualora il commento non dovesse più essere attuale trascorsi i due anni dalla sua pubblicazione o in ragione dell’adozione di misure idonee a superare le criticità che avevano dato origine al giudizio espresso”.
Dunque, la proposta sembra presuppore che esista una “verità” in materia di gusti personali e che questa sia verificabile, a distanza di tempo: chissà come farà il magistrato ad accertare se la pasta servita due settimane fa era scotta, come sostiene l’avventore, o al dente, come rivendica il ristoratore. Per non dire delle indagini che l’ufficiale giudiziario dovrà svolgere per accertare se davvero l’autore della recensione malevola sia stato proprio in quel ristorante, proprio quel giorno. O, ancora, come potrà l’esercente dimostrare di aver “superato le criticità che avevano dato origine al giudizio espresso” e pertanto chiedere l’immediata rimozione della recensione che, per esempio, lamentava che il letto dell’albergo in cui aveva soggiornato non era sufficientemente morbido. Battute a parte, colpiscono tre aspetti della norma. Il primo è che essa dà per scontato che le piattaforme online siano creta nelle mani del legislatore, il quale può chiedere di apportare modifiche strutturali al loro funzionamento – solo in Italia – senza colpo ferire. Il secondo è l’idea che le uniche recensioni distorsive siano quelle ingiustamente negative: come se non esistessero anche recensioni falsamente positive scritte dal cuoco per lodare i suoi piatti, e come se – in fondo – le due cose non si bilanciassero. Chiunque abbia almeno una volta consultato i siti di recensioni sa perfettamente che esse diventano affidabili solo quando sono in numero elevato, proprio perché a quel punto diventa più difficile condizionarne l’esito. Ma, soprattutto, sembra essere sfuggito ai ministri Adolfo Urso e Daniela Santanché – estensori del disegno di legge – che quello che chiedono già esiste: tutte le piattaforme danno agli esercenti l’opportunità di certificare la propria identità e rispondere alle recensioni che ritengono irriguardose.
Di fatto, quindi, siamo in presenza dell’ennesimo provvedimento bandiera, che – se avrà effetti – li avrà solo nel senso di generare un po’ di contenzioso tra ristoratori o albergatori offesi. Ma contemporaneamente questa norma tradisce l’idea dei nostri governanti che fattori come il gradimento di un servizio possano essere oggettivizzabili e quindi diventare soggetti a prescrizioni di legge. E intanto, con buona pace delle reiterate promesse di semplificazione, l’ennesimo editto si aggiunge ai nostri bulimici libri delle leggi.
Vale anche in questo caso la stessa domanda che si dovrebbe fare al legislatore: su dieci interventi, nove non fanno che aggiungere norme. Ma perché?