Vinse il premio Nobel per l’economia nel 1991, eppure – a dispetto di quello che era già da tempo il linguaggio in uso alla scienza economica – rifiutava l’uso prevalente della matematica. Non era soltanto un ammiratore del pensiero di Adam Smith: ne ammirava anche l’esposizione, diciamo così, “in prosa”. Insomma, quello che non gli piaceva era l’approccio da economisti che dato un presupposto facevano discendere una conseguenza, laddove la realtà tende a ignorare l’imposizione del presupposto e a farsi beffe della presunta conseguenza.
Li chiamava «economisti alla lavagna» e a lui non piaceva quella roba fatta di formule che, alla lavagna arrivavano dall’immaginazione e non dalla realtà. L’autore della monografia, che dell’Istituto Bruno Leoni è direttore delle ricerche e studi, fa i conti con un pensatore che viene semplicisticamente classificato fra i liberisti (ammesso significhi qualche cosa) ma prese le mosse da un approccio semmai socialista. Solo che l’inglese Ronald H. Coase (1910-2013) – poi trasferitosi a studiare e insegnare negli Stati Uniti – non riteneva illegittimi gli interventi dello Stato nell’economia, non ne faceva una questione ideologica, ma non trovava che avessero avuto un esito positivo. Cosa di cui faceva ricadere la responsabilità nell’errore del presupposto, nel tentativo di correggere un fallimento del mercato non rimettendo il mercato nelle condizioni di funzionare ma sostituendosi a esso.
Il mercato è una necessità che nasce dal costo delle transazioni. Individuare un prezzo, raggiungere il consumatore e indirizzare la produzione sono tutte cose che hanno un costo e il libero mercato non è l’assenza delle regole (bestemmia) ma il modo più efficiente per contenere quei costi. Per questa ragione un buon economista non può che costruire la propria conoscenza e le proprie visioni partendo dalla storia e dal diritto, ovvero dalle regole che accompagnano il mercato e dalle esigenze che le rendono necessarie.
Fu grazie ai suoi studi che si procedette all’assegnazione delle radiofrequenze sulla base di aste competitive, perché in questo modo un bene collettivo avrebbe trovato il suo migliore sfruttamento. In fondo, noi italiani, siamo la dimostrazione empirica di quanto avesse ragione: quando si pretese di assegnare quelle radiofoniche e televisive sulla base di altri criteri si finì con il creare un sistema disfunzionale le cui conseguenze si trascinano ancora oggi.