6 Agosto 2014
Il Foglio
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Quante volte abbiamo sbagliato! Sbagliato a credere che il “sorpasso” ci avrebbe liberato dalla razza padrona; a non credere in Craxi; a credere nell’alleanza dei progressisti; a credere nella Bicamerale di D’Alema; a caricare a testa bassa la riforma costituzionale di Berlusconi; a pensare che Monti fosse la svolta. Sbagliamo, adesso, a credere in Renzi?
Renzi ha imparato la lezione di D’Alema con la Bicamerale, e quella di Veltroni con la fondazione del Pd. Visto che, tra chi vuole cambiare il partito o il paese e chi sta governando, si generano inevitabilmente tensioni dirompenti, lui rinnoverà stando al governo. Ha imparato anche la lezione di Monti: il senatore governava per fare (anche) le riforme, Renzi vuole fare le riforme per poter governare, eliminando il bicameralismo e approvando una legge elettorale che favorisca la stabilità. Matteo Renzi in poche settimane ha: rinnovato la dirigenza del Partito democratico, voltando pagina rispetto a storie e parole di un passato che non rinunciava a essere presente; archiviato l’antiberlusconismo come categoria politica; concluso sulla legge elettorale un accordo che non era riuscito a tre governi prima di lui, e che ha resistito a colpi che avrebbero potuto (o avrebbero voluto?) farlo saltare. Ha posto con chiarezza, e imposto con fermezza, paletti su elezione diretta e poteri legislativi del nuovo Senato. Per fare tutto questo ci vuole chiara visione e capacità politica: dovremmo dire che non abbiamo sbagliato a credere in Renzi.
Per realizzare una riforma istituzionale ed elettorale di portata ridotta, a paragone dell’ampiezza dei temi discussi dalle commissioni insediate da Napolitano prima e da Letta dopo, e sviscerata in ogni suo aspetto, può bastare la visione strategica e la volontà di una persona sola. Anch’io trovo che sia un errore dare dignità costituzionale alla parte meno commendevole della Pubblica amministrazione: ma parlare di spregiudicatezza e cinismo, per non dire di svolta autoritaria, mi pare fuori luogo. Anch’io preferirei un semipresidenzialismo con uninominale a doppio turno: ma per quello non ci sono i numeri, e riconoscerlo non significa essere neo o para-berlusconiani. Anch’io critico scelte in cui la fedeltà al capo fa aggio sulla competenza, e l’esperienza pare essere considerata una pecca: ma capisco che per far passare questo pacchetto di riforme la compattezza della squadra può rendere più brevi e agevoli le comunicazioni. Fine del bicameralismo, correzione del Titolo V, legge elettorale: tenuto conto di dove ci troviamo, portarle a casa, evitando gli scogli (le preferenze, per dirne una) sarebbe un risultato storico. Attuare la prima riforma importante della Carta del 1948 richiede capacità di governo. Ma governare l’Italia è un’altra cosa, vuol dire fare le cosiddette riforme strutturali, e insieme dare risposta ai problemi che ogni giorno arrivano su tavolo di governo: non si fa con un tweet. Nei lunghi tempi richiesti per le riforme costituzionali, i due compiti si sovrappongono. E crescono le occasioni in cui ci si chiede: a credere in Renzi ci siamo sbagliati?
Quando mi sento dire in pubblico, da un sottosegretario che la riforma della Pa è praticamente a buon punto avendo immesso persone giovani; quando sento un ministro affermare che non è il caso di toccare l’art. 18 perché oggi il problema non è licenziare ma assumere; quando sento il presidente del Consiglio esclamare, con tono vibrante, che i risparmi non li fa Cottarelli ma il governo; quando penso a come sono state scelte certe candidature, e come altre potrebbero esserlo in futuro: allora penso che abbia ragione Luca Ricolfi (“Chi ci rimette con il primato della politica”, la Stampa, 3 agosto), che il semplicismo di Renzi e dei suoi siano manifestazione della demagogia e del populismo ormai costituenti del Dna della nostra classe politica; che riveli la “incapacità della nostra classe politica di riconoscere e accettare la complessità dei problemi di una società moderna, tanto più se in crisi da vent’anni; [che] di qui [nasca] il senso di sufficienza verso professionisti ed esperti, di qui [trovi] alimento il sentimento di onnipotenza del governo”.
Un conto è avere un’idea di quali cose modificare per rimettere la barca in condizione almeno di riprendere il mare; tutt’altro è mettere mano alla sua struttura portante. Con l’andare del tempo, con l’aggravarsi dei conti, e il sopraggiungere delle scadenze in cui renderne conto, Renzi non può evitare di affrontare il problema della riforma della Pubblica amministrazione: con quali idee in testa? E’ almeno cosciente, per citare ancora Ricolfi, “degli enormi limiti cognitivi della politica, di questa politica, con questi politici nell’Italia di oggi”? Solo se si sa verso dove si dirigerà la prua ha senso rimettere in sesto la barca. E’ vent’anni che perdiamo in competitività; abbiamo un settore pubblico che ha continuato a vivere al di sopra delle proprie risorse, perfino accelerando il processo dall’inizio della crisi, usando i vincoli europei per aumentare le tasse senza diminuire i debiti. Solo di lì possono venire le risorse per tagliare le tasse e ridare fiato all’economia. Mica penseremo che basti ridurre gli stipendi, unificare gli acquisti, qualche decreto omeopatico e le solite giaculatorie sul recupero dell’evasione? L’amministrazione è cresciuta nel monopolio, schermata dalla concorrenza. Bisogna prendere interi settori ed esporli al mercato: sanità, università, scuole, servizi, dalle poste, all’acqua, all’elaborazione dati. Non ci sono santi, è la sola cosa che si possa fare in tempi abbastanza rapidi, probabilmente senza neppure licenziare. E’ questo ciò che ha in mente Renzi?
Domanda retorica, risposta scontata. Renzi, se resisterà, troverà la sua sfumatura di governo socialdemocratico, e il suo linguaggio politically correct in cui declinarla. Non ci sarà svolta autoritaria, forse si eviterà perfino il default e la patrimoniale secca. Ma chi, tra qualche anno, guarderà indietro non avrà dubbi: anche questa volta leverà il punto interrogativo.
Da Il Foglio, 6 agosto 2014
Twitter: @FDebenedetti