Come la mano di Mario Brega, il nuovo redditometro «po’ esse’ fero o po’ esse’ piuma». Per il vice ministro Leo è una questione di merito: un regolamento che disciplina le modalità di accertamento presuntivo può servire a circoscrivere i limiti con cui all’amministrazione fiscale è consentito procedere ad accertamenti, a garanzia dei contribuenti.
Gli accertamenti sintetici quali strumenti di recupero delle imposte implicano uno squilibrio tra il fisco e i contribuenti a vantaggio del primo, poiché invertono l’onere della prova rendendo tutti i contribuenti evasori fino a prova contraria. Dagli ultimi dati della Corte dei conti, l’efficacia del redditometro risulta molto bassa.
Nel 2016, cioè poco prima che smettesse di essere operativo, gli esiti finanziari si attestavano intorno ai 2 milioni di euro, una cifra bassissima per le casse pubbliche. La grande evasione era contestata solo nell’11,5% dei casi. Poca cosa rispetto alle attese. Anche per questo il redditometro non era più usato in attesa di un aggiornamento di un nuovo sistema di indicatori. L’ordinamento giuridico abbonda di esempi di leggi non efficaci perché mancano i provvedimenti attuativi. Non approvarli è, anzi, un’inerzia spesso eloquente di una precisa volontà politica. Al di là quindi di come è stato disegnato il nuovo redditometro, lo zelo con cui il Mef, o una parte di esso, lo ha varato è un segnale che di per sé stride con la strenua difesa degli interessi del contribuente contro le modalità rapaci del fisco di cui i partiti di maggioranza si sono fatti sempre portavoce.
Per questo, è comprensibile che Lega e Forza Italia abbiano immediatamente preso le distanze non tanto dal redditometro di Leo, quanto dal redditometro in sé, ricordando ai loro elettori da che parte stanno. E sempre per questo, con una sensibilità politica accentuata dalle imminenti europee, la premier Meloni ha prima tranquillizzato contribuenti e cittadini con un lungo tweet e poi nella serata di ieri ha diffuso un video in cui dichiara di aver sospeso il provvedimento in attesa di chiarimenti. Che sia di ferro o di piuma la mano che ha scritto il nuovo redditometro, l’iniziativa ci ricorda che nessun pasto è gratis.
Questo governo ha ottenuto il favore degli elettori anche per aver promesso di ridurre la pressione fiscale sulle imprese e le famiglie e di non disturbare chi vuole fare. Ora, però, si trova nella spiacevole situazione di dover fare i conti con la realtà della spesa e del debito pubblici. Non è una responsabilità esclusiva, ma tocca a questa coalizione destreggiarsi tra la necessità di governare e quella di rispettare la promessa di un rapporto “paritetico e di reciproca fiducia” tra lo Stato e il sistema produttivo, dove chi “ha la forza e la volontà di fare impresa va sostenuto e agevolato, non vessato e guardato con sospetto” (copyright Meloni). Nemmeno i contribuenti elettori conoscono la lezione sul costo dei pasti. Il più grande e trasversale partito d’Italia, quello della spesa pubblica, non fatica a trovare accoliti e elettori. E per la domanda elettorale che l’offerta politica non va mai nel senso del risparmio di spesa, ma continua a promuovere la spartizione della torta come se fosse infinita.
Di questa dinamica viziosa l’evasione è una componente significativa: evadere vuol dire ricordarsi quanto sono gravose le tasse al punto da cercare di evitarle, salvo poi dimenticarsene nel segreto delle urne. Se imparassimo che non c’è pasto gratuito, sarebbe più facile per chi ci governa provare a ragionare su come diminuire la spesa pubblica, anziché perfezionare in maniera caotica gli strumenti di lotta all’evasione. O sarebbe almeno più difficile trovare un alibi per non fare ciò che hanno promesso.