L’Europa e la pezza peggiore del buco

Bisogna prenderne atto che aumentare il debito in risposta a un ordine mondiale che sta cambiando non è la risposta adeguata

5 Marzo 2025

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Trump è la realtà che ha sfondato la porta, dopo aver smesso di bussare perché nessuno apriva. Vale per l’agenda politica dei democratici, in lunga fase di de-pensiero woke, vale per l’illusione della pace perpetua nel nostro angolo di mondo, della tenuta del multilateralismo, della forza intrinseca dell’Unione europea. In particolare, dare addosso a quest’ultima per la sua inconsistenza, burocrazia e retorica è lo sport del momento, ma l’iperrealismo sulle cause conduce poco lontano nella gestione delle conseguenze. È vero, l’Ue arranca da quindici anni di emergenza in emergenza ed è probabile che viva solo grazie ad esse. In fondo, il motto che l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi è un modo più elegante di dirlo. Ma una volta riconosciuto tutto ciò, che si fa ora che Trump ha sfondato la porta e ci ha sorpresi, come il famoso re, nudi in casa nostra? L’effetto spiazzante agisce su due livelli. C’è un primo livello, più superficiale, che riguarda il riassestamento delle competenze, delle risorse e dei posizionamenti in diritto e in politica internazionale. Riguarda il cosa fare per organizzare una difesa europea, come assicurarci la pace nel nostro continente anche senza il sostegno americano, come reagire ai dazi. C’è poi il secondo livello più profondo, che regge il primo. Riguarda non il cosa fare, ma il perché. Con iperrealismo, si potrebbe ritenere che è meglio non far nulla che far danni. L’Ue, sempre che abbia gambe forti per correre, non avrebbe il tempo di organizzare una difesa utile all’Ucraina e ai suoi stessi confini. La possibile risposta del più debito, ieri esposta da Von der Leyen in una lettera inviata agli Stati, sarà una pezza peggio del buco. Infine, sui dazi nel breve termine sarebbe più conveniente negoziare accordi economici bilaterali con gli Usa, specie per l’Italia il cui capo di governo ha un rapporto diretto e amichevole con Trump.

Perché, quindi, gli Stati dell’Ue dovrebbero fare qualcosa, dati i costi e l’incerto risultato? È su questa domanda che agisce l’effetto spiazzante di Trump, in maniera complicata e penosa, perché sgretola categorie di pensiero in cui eravamo accomodati e ci lascia sorpresi nel trovarci in disaccordo con chi pensavamo la pensasse come noi, o viceversa. Il riassestamento dell’asse Salvini-Conte e una certa somiglianza tra le difficoltà di scelta di Meloni e di Schlein sono solo il riflesso di ciò che resta in tante nostre comuni, private conversazioni. Nei giorni della recita del de profundis dell’Ue, non dovremmo confondere la difficoltà del momento con un fallimento strutturale, né l’orientamento attuale dell’Unione con il percorso storico che ha avuto. Solo per stare a esempi di cui abbiamo ricordo diretto, il rigetto verso l’Unione della cd. austerity (ammesso che significhi qualcosa) ha accomunato pochi anni fa le estreme destre nazionaliste e le sinistre eredi dei movimenti no global. Eppure il sistema europeo, euro compreso, ha consentito agli Stati con più alto debito di salvare i conti pubblici. Se una colpa va attribuita, è a carico di alcuni di loro, Italia per prima, che non hanno fatto tesoro del minor costo del debito e del sostegno ricevuto. Anche alzando lo sguardo rispetto agli interessi di casa nostra, non possiamo trascurare che l’Europa non è stata solo e soltanto un mostruoso ordinamento di lacci e laccioli. E’ anche uno spazio di mercato comune (ancorché incompleto) e di rule of law, che ha garantito non meno bene di quanto sarebbero state in grado di assicurare comunità politiche più ridotte.

Essere critici nei confronti dell’Europa della Commissione Von der Leyen – quindi dell’Europa dei Pnrr, del Green Deal e del debito comune – non deve portarci a buttare, con l’acqua sporca, un bambino che ha ormai 70 anni di integrazione. C’è poi un secondo argomento, che riguarda in particolare difesa e Ucraina. Si può essere consapevoli che gli affari tra Stati sono affari, non agende politiche basate su valori comuni, e riconoscere al tempo stesso che il sistema giuridico e economico che ha fatto il benessere dell’Europa e della sua gemmazione americana poggia non solo sul senso della convenienza, ma sul riconoscimento della libertà di fare affari in un contesto stabile in cui i diritti e le libertà contano. Il principio di non aggressione è il presupposto più basilare di pacifica convivenza, tra le persone e tra gli Stati. Ed è anche la base minima di quel sistema di diritti, a partire dalla proprietà e dalla libertà personale, che l’Atlantico non ha ancora diviso. Per questo, la conta dei danni non è uguale da una trincea all’altra, né lo sono le responsabilità, né le condizioni di cessate il fuoco, né le modalità con cui ci si propone come negoziatori. Per questo, non è indifferente quanto avvenuto e detto dallo Studio Ovale fino a ieri, quando Zelensky ha riconvenuto sull’accordo sulle terre rare a fronte della sospensione degli aiuti militari. Per quanto realistici o cinici in questo momento si possa essere (non possiamo difenderci da soli, non nell’immediato, né possiamo senza gli Usa aiutare l’Ucraina a trovare una pace con la Russia), è difficile non vedere come la posta in gioco è il mantenimento di quel presupposto minimo del nostro modo di convivere con gli altri, amici o nemici che siano. Ed è quello che l’Europa dovrebbe continuare a difendere. Auspicabilmente con gli Stati Uniti, ma senza abdicare ai principi più elementari.

oggi, 11 Marzo 2025, il debito pubblico italiano ammonta a il debito pubblico oggi
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