La lezione di Einaudi sul titolo di studio

Se lo Stato ha il potere di "accreditare" taluni istituti e altri no, non c'è più alcuna vera libertà educativa


20 Febbraio 2024

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Politiche pubbliche

Il prossimo 24 marzo si festeggia il centocinquantesimo anno dalla nascita di Luigi Einaudi, che non soltanto fu il primo presidente della Repubblica italiana, ma anche un economista liberale e un attento studioso di questioni sociali. Le celebrazioni sono già iniziate e certamente la sua figura sarà ricordata anche in Ticino, dove egli trovò rifugio dopo l’armistizio tra l’Italia e gli alleati (cui fece seguito l’occupazione del Nord Italia da parte dei tedeschi). 

Proprio in Svizzera, tra l’altro, egli scrisse le Lezioni di politica sociale e I problemi economici della federazione europea. C’è un suo insegnamento, però, che quasi certamente nessuno prenderà sul serio: perché una cosa è fare facile retorica e altra cosa è comprendere il senso profondo di riflessioni ancora oggi attualissime. Mi riferisco alle tesi einaudiane contro il valore legale del titolo di studio. 

Einaudi fu un fiero avversario di questa istituzione, che reputava intrinsecamente illiberale. Aveva compreso che se lo Stato ha il potere di “accreditare” taluni istituti e altri no, non c’è più alcuna vera libertà educativa. Come non possiamo accettare che lo Stato s’intrometta nelle questioni religiose, per la stessa ragione dovremmo creare un muro altissimo tra chi ha potere e tutti quegli spazi in cui si insegna, si studia, si fa ricerca. 

Alcune sue parole, scritte nel 1947 (durante i lavori della Costituente repubblicana in Italia), sono quanto mai eloquenti, poiché a suo parere “libertà di insegnamento ed esami di stato sono concetti incompatibili. Esame di stato vuol dire programma, vuol dire interrogazioni prestabilite su materie obbligatorie; vuol dire certificato rilasciato, da uomini investiti legalmente di un pubblico ufficio, in nome di una determinata autorità pubblica, detta stato, certificato il quale attesta che il tale ha subito certi dati e non altri esami su certe materie prestabilite in regolamenti emanati da quella certa autorità”. 

Lo studioso piemontese aveva compreso che se quanti dispongono del monopolio della violenza legale sono autorizzati a definire “cosa” si deve studiare e “come”, è fatale che l’intero universo scolastico sia piegato alle esigenze di quanti vogliono avere sudditi acquiescenti, contribuenti fedeli, soldati obbedienti. Il suo giudizio è netto e andrebbe scritto nel marmo: “finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento”. 

Einaudi sottolineò a più riprese come il “pezzo di carta” sia pure un inganno per i giovani. Non è sufficiente un attestato con il timbro dei governanti a fare di un ignorante una persona colta. Un ingegnere edile può essere meglio di un geometra, ma soltanto se sa davvero di più, se ha più esperienza, se è meglio in grado di costruire edifici e mettersi al servizio del pubblico. Non basta il titolo conseguito, allora, a farlo tale. 

Le varie scuole e università rilascino pure i loro diplomi, dunque, ma il valore di quei documenti sarà dettato unicamente dal prestigio di quell’istituzione. Otto anni dopo lo scritto citato in precedenza, Einaudi tornò sul tema e tra le altre cose sottolineò che quello del valore legale dei titoli di studio era un mito; subito aggiungendo che “un qualunque mito è accettato se e finchè nessun altro mito è reputato per consenso generale più vantaggioso”. 

Si tratta allora di tornare all’essenza: al fatto che un docente è tale se sa insegnare (quali che siano i suoi diplomi), un commercialista è da ritenersi competente se sa aiutarci nel gestire la nostra azienda e nel migliorarne i conti, un giurista può essere apprezzato se conosce il diritto, i suoi principi, le sue procedure. Una formidabile figura dell’Ottocento americano, Lysander Spooner, condusse una memorabile battaglia per superare gli sbarramenti regolamentari e diventare presto avvocato dato che egli era in grado di svolgere quella professione e la vinse. 

E’ la prima questione, a ogni modo, che in assoluto è la più cruciale, perché il valore legale del titolo di studio è soltanto la premessa per un costante controllo dei poteri statali sull’educazione e sulla ricerca. In questo quadro, la via verso la schiavitù appare assai ben tracciata.

da La Provincia, 20 febbraio 2024

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