“Atac deve rimanere pubblica. Atac deve rimanere di noi tutti”, ha scolpito Virginia nel tweet con cui ha sbarrato la strada sia all’ipotesi di privatizzare la disastrata azienda di trasporto pubblico romano, sia alla prospettiva di assegnare il servizio tramite gara come chiedono i trentamila firmatari referendum radicale. Tuttavia, le parole della sindaca si prestano a più di una interpretazione: chi sono i “noi tutti” di cui parla?
Se “noi tutti” sono i politici che amministrano pro tempore Roma, allora la prima cittadina fa bene a voler difendere lo status quo. È proprio grazie al cortocircuito tra comune concedente e azienda pubblica concessionaria che la politica romana può nominarne i dirigenti e fare dei dipendenti, con la complicità dei sindacati, un rilevante bacino di consenso. Se invece “noi tutti” sono i cittadini, la prospettiva cambia, e molto: la qualità del servizio è infima e l’unica attività nella quale Atac primeggia è quella di accumulare perdite su perdite. La gestione pubblica di Atac ha regalato ai romani, più che il controllo dell’azienda, un debito di oltre 1,3 miliardi, pari a 452 euro a testa, inclusi neonati e centenari.
Atac può essere un caso estremo, ma la condizione in cui si trova non è conseguenza della patologia romana: è, piuttosto, una manifestazione della fisiologia della proprietà pubblica. La coincidenza tra regolatore e regolato, e la (percezione di) assenza di rischio fallimento, producono inevitabilmente un incentivo alla mala gestione, che si traduce a sua volta in costi eccessivi, sprechi e cattivo servizio. È proprio questa diffusa malattia che spinse Margaret Thatcher, alla vigilia delle elezioni de1 1979, a definire la Gran Bretagna un paese in cui le imprese private erano controllate dal pubblico, e quelle pubbliche da nessuno. Una definizione che da molti punti di vista vale per l’Italia e che in ogni caso è perfettamente aderente all’azienda dei trasporti romana. Tant’è che la breve stagione del tentato risanamento si è rapidamente chiusa con una serie di abbandoni, da Marco Rettighieri a Bruno Rota. Atac, insomma, appare più come la punta dell’iceberg delle partecipate del comune di Roma che come un caso eccezionale. Oltre che di Atac e della sua cugina Ama, il Campidoglio tiene anche le redini di una molteplicità di aziende, che vanno dalla gestione museale alla riscossione dei tributi fino alla fiera. Nell’elenco figurano addirittura una compagnia assicurativa, le Assicurazioni di Roma, e una piccola partecipazione agli Aeroporti di Roma. Ma il monumento alle velleità imprenditoriali capitoline è la società Servizi Azionista Roma Srl, creata per fornire supporto al Comune nella gestione delle società partecipate, e che oggi si trova in liquidazione.
In questo contesto, dire che Atac e le altre partecipate devono rimanere pubbliche e dire che devono rimanere dei romani sono due cose molto diverse. Nel senso che i romani non sono affatto “proprietari” dell’Atac come lo sarebbero gli azionisti di qualsiasi altra azienda: i cittadini non hanno la libertà di scegliere se investire o meno i loro soldi e non hanno neppure alcun potere di decidere o influire sull’andamento o sulla gestione dell’azienda. Sono semplicemente chiamati a pagare con le tasse i debiti accumulati da una società completamente fuori dal loro controllo, gestita da manager, sindacati e politici attraverso logiche clientelari che non tengono in minima considerazione né l’efficienza economica né tantomeno la qualità del servizio. Continuare a definire l’Atac come un’azienda “pubblica” è evocativo, ma in realtà non c’è nulla di più privatistico – e contrario agli interessi collettivi – di una gestione politica e monopolistica in cui i cittadini sono chiamati solo per pagare il conto.
Un partito come il M5s, che ha fatto dell’impeto rivoluzionario e del centralismo democratico la propria cifra organizzativa, di fronte a questo quadro così deprimente dovrebbe leninianamente chiedersi: che fare? Una possibile risposta arriva da un saggio de1 1977 del Premio Nobel per l’Economia Milton Friedman. Il cuore del saggio, intitolato “Curing the British Disease: The Steps from Here to There”, è molto semplice: “Non vendere all’asta [l’impresa pubblica da privatizzare], ma cederla, assegnando un’azione a ogni cittadino”. L’idea dell’economista americano era di creare un fondo comune, una sorta di holding nella quale convergessero tutte le imprese pubbliche, e attribuire agli allora 55 milioni di abitanti britannici le azioni del fondo. “Queste aziende – spiegava Friedman – appartengono alla gente; quindi dobbiamo restituirle alla gente”.
La proposta di Friedman non ebbe seguito nel Regno Unito, ma venne utilizzata in molti paesi ex sovietici all’indomani della caduta del muro di Berlino. Il metodo venne applicato, in diverse varianti e con alterni successi, in 19 dei 25 Stati ex sovietici, tra cui Russia, Bulgaria, Slovenia, Polonia, Lituania, e l’ex Cecoslovacchia. L’idea di base è intuitiva: ciascun cittadino potrebbe diventare in senso molto concreto proprietario dell’azienda pubblica; potrebbe così partecipare alla sua gestione o disinteressarsene, oppure cedere la sua quota ad altri. In concreto, i giudizi sull’esperienza sono eterogenei, ma nei casi in cui essa non è ritenuta di successo, tendono a concentrarsi sulle modalità e il contesto in cui le azioni vennero distribuite. In paesi privi di rule of law, dove la stessa proprietà privata rappresentava un’innovazione e dove non esistevano borse ben funzionanti, fu facile per gli oligarchi rastrellare azioni a poco prezzo e arricchirsi alle spalle dell’ignoranza dei cittadini. In molti casi furono il management delle aziende e le burocrazie pubbliche a gettare sabbia negli ingranaggi. Ma, conclude un paper del 1993 di Maxim Boycko, Andrei Shleifer e Robert Vishny, “anche se la voucher privatization pone dei problemi nel disegno o nell’implementazione, le alternative sono peggio… Nessun problema è fatale. La maggior parte possono essere corretti”. In sostanza: se la quotazione delle imprese pubbliche ha, agli occhi dei grillini, l’aspetto della concessione allo stato imperialista delle multinazionali, la privatizzazione di massa appare invece come uno strumento per trasformare i cittadini nei portavoce di se stessi.
Dunque, se come dice Raggi, l’Atac è dei romani, perché non darne un pezzo a ognuno di loro? Per quanto un intellettuale come Milton Friedman sia lontano dal mondo grillino, questa specie di “Atac di cittadinanza” non è un’idea estranea al M5s. Nel programma con cui il partito di Beppe Grillo si è presentato alle scorse elezioni c’era una proposta molto simile ed era quella di privatizzare la Rai attraverso la “vendita ad azionariato diffuso, con proprietà massima del 10 per cento, di due canali televisivi pubblici”. Nel caso qui proposto per Atac l’operazione sarebbe ancora più egualitaria: ogni cittadino romano riceverebbe una medesima quota di proprietà di una public company. Non si tratterebbe di una vendita, perché i romani hanno già ampiamente pagato la compagnia di trasporto: sarebbe, semmai, una restituzione.
D’altronde se la cessione di quote delle aziende pubbliche ha funzionato – seppure al costo di qualche problema e non pochi fallimenti – nei paesi reduci dal comunismo, può funzionare perfino a Roma. La distribuzione delle azioni ai cittadini non è solo uno strumento per responsabilizzarli, ma è anche un modo di prendere molto sul serio lo slogan “uno vale uno”: perché, a differenza del sistema Rousseau, le assemblee degli azionisti non possono essere sabotate. Come ha dimostrato lo stesso Beppe Grillo quando, forte della sua partecipazione, trasformava le assemblee di Telecom e del Monte dei Paschi in altrettanti show. Attraverso una riforma così rivoluzionaria l’amministrazione M5s smantellerebbe realmente il sistema di potere dei partiti sulla città e creerebbe le basi per una vera democrazia diretta in cui i romani sarebbero cittadini completi: fruitori dei servizi pubblici, proprietari di chi li eroga, elettori di chi li regola e controlla. Questo non dovrebbe esimerli dall’obbligo della buona gestione: nel momento in cui Atac diventa privata allora segue naturalmente che, dopo un primo periodo, il servizio va messo a gara. Nessun autobus è gratis, e l’interesse pubblico consiste soprattutto nel garantire una buona mobilità urbana.
È una proposta radicale che può sembrare anche folle, ma è l’unica vera e coerente alternativa per chi, come la Raggi, non vuole “privatizzare” Atac. Perché viste le condizioni in cui versa l’azienda, parafrasando Andreotti, oggi i veri folli sono di due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare l’Atac.
Da Il Foglio, 12 settembre 2017