Quando venne pubblicato, nell’ ormai lontano 1980, il libro di Milton e Rose Friedman possedeva una eccezionale carica innovativa, quasi dissacrante.
Oggi, questa carica si è molto affievolita, ma, come nota Francesco Giavazzi nell’Introduzione al volume, vi è ancora molto da imparare a leggere questo libro, specialmente in Italia, dove persistono pregiudizi incomprensibili.
Come tutte le cose umane, il mercato può certamente “fallire” in varie circostanze, ma è certamente sbagliato vederlo come uno strumento a favore della grande industria. La realtà è molto diversa. In alcuni casi è addirittura opposta. Come in Italia osservò anche Einaudi, non appena possibile la grande industria, lungi dal difendere il mercato, non esita ad utilizzare l’intervento dello Stato per proteggersi dalla concorrenza. Cosicché, attaccato da una parte da una diffusa cultura anticapitalista e, dall’altra, dalla furbizia dei “capitani coraggiosi” di turno (ogni riferimento alla cronaca è ovviamente intenzionale) il mercato in Italia ha da sempre avuto vita dura.
Il libro dei Friedman è scritto con ammirevole chiarezza, ma la semplicità non deve trarre in inganno. In esso confluiscono analisi rigorose, a cominciare da quelle condotte dalla scuola delle public choice, ove i potenziali fallimenti dello Stato sono attentamente studiati. Sarebbe sbagliato leggere il libro come una cocciuta e ideologica difesa del mercato. I limiti del mercato sono ampiamente riconosciuti. D’altra parte, come ho già detto, non si vede perché si debba pretendere l’infallibilità divina da un qualsiasi meccanismo di coordinamento sociale, quando è ovviamente popolato da uomini con limiti cognitivi e dotati di informazioni parziali.
Il problema che in continuazione pongono i Friedman è invece un altro, assai più semplice e pragmatico: dati i fallimenti del mercato, siamo sicuri che l’intervento dello Stato garantisca risultati migliori?
Sebbene sia semplice e pragmatica, unita ad una certa dose di capacità analitiche, la domanda posta dai Friedman conduce a risultati che sfidano ancora oggi il buon senso comune. Vorrei qui citare la regolamentazione sulla vendita dei farmaci, a cui i Friedman dedicano alcune penetranti pagine all’interno del capitolo dedicato alla tutela del consumatore. Sembra quasi ovvio che sia compito dello Stato salvaguardare la salute dei cittadini con il controllo severo dei nuovi farmaci, prima che vengano introdotti nel mercato. Tuttavia, le cose non sono così semplici. Ogni scelta implica il sacrificio di una opportunità. In questo caso, l’opportunità sacrificata è che il farmaco di cui è stata ritardata la commercializzazione avrebbe salvato molte vite umane. Molti anno dopo la pubblicazione del libro dei Friedman, si è verificato un caso emblematico, che illustra il punto sollevato. Il movimento dei malati di AIDS contestò duramente la decisione di ritardare la commercializzazione dei primi farmaci contro l’AIDS sulla base che la cautela delle autorità e degli scienziati era eccessiva di fronte alla tragedia che si stava verificando. Dopo una iniziale insofferenza, anche Robert Gallo, il co-scopritore del virus, ammise le buone ragioni del movimento. Con un sottile ragionamento (basato sulla distinzione, in statistica degli errori del primo e del secondo tipo), i Friedman argomentano che l’intervento dello Stato conduce alla sopravvalutazione del rischio di accettare un farmaco dannoso rispetto al rischio di respingere un farmaco che potrebbe salvare molte vite. Questo esempio non è ovviamente sufficiente a convincere i fautori di una rigida legislazione da parte dello Stato. Infatti, si sostiene, è innegabile che i farmaci possano risultare assai pericolosi. In fondo, l’industria farmaceutica ha in mente il profitto (come ci insegnerebbe la teoria economica), non la salute dei pazienti. Inoltre, bisogna sottolineare come le persone non siano certamente in grado di valutare l’efficacia di prodotti che richiedono anni di ricerca e di preparazione.
La risposta dei Friedman è articolata. Innanzitutto, al contrario di ciò che si afferma, l’industria farmaceutica ha tutto l’interesse a salvaguardare la salute dei propri pazienti. Vi è, in primo luogo, il rischio di costose cause penali. Il caso del Talidomide, ad esempio, comportò perdite miliardarie da parte dell’industria farmaceutica. E’ di poche settimane fa la notizia che una casa distributrice, dunque non direttamente coinvolta della produzione del farmaco, ha dovuto sborsare in Australia, a distanza di così tanti anni, l’equivalente di 63 milioni di euro ai familiari di persone nate deformate a causa del farmaco. Inoltre, la reputazione è essa stessa un bene economico. Una casa farmaceutica che acquista la fama di produrre farmaci con effetti indesiderati è condannata al fallimento.
Sono convinto che molti lettori rimarranno ancora non convinti. La salute è troppo importante per essere lasciata al mercato, che indubbiamente può fare errori. Tuttavia, ancora una volta, si tratta di capire se, e in quali circostanze, la regolamentazione dello Stato riesca a far meglio del mercato. Il mercato è anche un meccanismo di sperimentazione del nuovo (è questa, in sintesi, la lezione di Hayek), uno sperimentazione che viene fatta inizialmente su scala ridotta. Ciò significa che gli errori sono limitati. Lo Stato, invece, imponendo gli stessi criteri in modo generalizzato rende gli errori altrettanto generalizzati. Friedman porta ad esempio l’interessante caso del Tris, un prodotto che sarebbe servito a ridurre i casi di lesioni dovuti a combustioni accidentali. Sotto la spinta della legislazione americana, il Tris venne universalmente spruzzato sugli abiti dei bambini, salvo poi accorgersi che si trattava di un prodotto altamente cancerogeno. Se non ci fosse stato l’intervento dello Stato, il prodotto sarebbe stato verosimilmente utilizzato da un numero assai più ridotto di produttori.
Il problema, dunque, non è quello di non fare errori, ma come farne il meno possibile e di limitarne le conseguenze (insieme al modo di scoprirli velocemente). Non è detto che in questo lo Stato sia più efficiente del mercato. Al contrario. Ciò, ovviamente, non significa che lo Stato non debba più avere alcun ruolo, ma questo va commisurato ai problemi che dobbiamo affrontare. Ad esempio, lo Stato può avere un ruolo importante nella diffusione di informazioni il più possibile precise sulle caratteristiche di un farmaco. Può anche avere un ruolo nello stabilire alcuni requisiti minimi richiesti alla sperimentazione prima della commercializzazione. Il mercato, da solo, non è in grado di escludere l’esistenza avventurieri che non si curano affatto di costruire una solida e duratura reputazione. I Friedman evidentemente ritengono che il ruolo dello Stato debba essere assai modesto (ma non inesistente). Altri ritengono che debba essere più esteso. L’importante è non concentrarsi sugli inevitabili fallimenti del mercato, presupponendo che lo Stato sia esente da altrettanti, e a volte più pericolosi, fallimenti.
Questo approccio è ripetuto dai Friedman in tutti i numerosi problemi di cui si occupano nel libro (dalla tutela ambientale, alla politica energetica, e così via). Mi permetto di insistere su questo. Serve a “de-ideologizzare” la lettura del libro, che è invece soprattutto un pacato invito a ragionare senza preconcetti.
Da Libro Aperto, gennaio-marzo 2014