20 Agosto 2017
Il Sole 24 Ore
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Un’antologia di scritti del grande economista ne rivela il coté politico: un liberalismo che impone di non scegliere per gli altri di Alberto Mingardi per Andrei Shleifer, il periodo fra i11980 e il 2005 è stato “l’età di Milton Friedman”. Sono anni in cui l’ostilità verso il libero mercato sembrava destinata a ridursi. Che Friedman sia stato uno dei maggiori economisti del secolo, è fuori discussione. È stato anche il più brillante divulgatore delle idee liberali (di qui, “l’età di Milton Friedman”): coi suoi libri, la serie di documentari Liberi di scegliere, conferenze in tutto il mondo, gli editoriali per Newsweek.
A segnare l’“età di Friedman” è stata soprattutto la sua riformulazione della teoria quantitativa della moneta. Se l’inflazione è un fenomeno monetario, per “gestirlo” serve che la banca centrale faccia ovvero non faccia certe cose. L’impatto fu dirompente: la congerie di controlli e regolamentazioni pensata per governare l’andamento dei prezzi si rivelò un palliativo costoso. La pretesa legge che legava inflazione e tasso d’occupazione, un abracadabra ideologico.
Friedman portò nel dibattito l’idea di obiettivi chiari e dichiarati di politica monetaria e lo stesso concetto di una banca centrale indipendente e per questo meglio attrezzata per contenere le pressioni della politica. Altre sue proposte, come il buono-scuola e il mix flat tax-imposta negativa sul reddito, non hanno sin qui trovato terreno fertile, nonostante spesso riaffiorino nella discussione in diversi Paesi.
Se è difficile negare il valore dell’economista o l’impatto del divulgatore, pochi hanno considerato Friedman un pensatore politico. Cambieranno idea leggendo Milton Friedman on Freedom, pubblicato dalla Hoover Institution (l’ultima “casa” di Friedman, dopo che lasciò Chicago) con prefazione di John B. Taylor. È un’antologia che riunisce una (piccola) selezione dai Milton Friedman Collected Works, ora accessibili online (https://miltonfriedman.hoover.org). Forse il contributo cruciale, per capire Friedman, è un’intervista che concesse nel 1974 (due anni prima del Nobel) a tre giovani studiosi, Tibor Machan, Joe Cobb e Ralph Raico, per la rivista Reason. In un dialogo intenso, in cui Friedman è messo un po’ sulla difensiva da interlocutori più radicali di lui, spiega di aver sempre «rifiutato la posizione utilitarista», per cui un’economia di mercato è accettabile in ragione della prosperità che crea.
Il liberalismo di Friedman affonda le sue radici nella realizzazione della finitezza degli esseri umani, nella «convinzione che la nostra conoscenza è limitata». «La domanda che ognuno dovrebbe porsi è: sono un essere umano imperfetto, che non può essere assolutamente certo di alcunché. Dunque, quale posizione posso prendere? Quale posizione comporta il minor grado di intolleranza da parte mia, la minore arroganza, il minor grado di fede nella superiorità della mia saggezza e nelle mie conoscenze?».
Per Friedman, proprio perché la nostra conoscenza è imperfetta non possiamo programmare l’attività economica, sostituire un singolo decisore alla miriade di scelte, individuali e decentralizzate, che vengono prese sul mercato. Ma il suo argomento è anche di carattere etico: è un’accusa al paternalismo. Noi non ci dobbiamo permettere di scegliere per gli altri, se li consideriamo individui adulti. Questo non vuol dire che a ciascuno di noi manchi un’idea del bene, della vita buona, e persino magari qualche opinione strutturata su ciò che potrebbe giovare al nostro prossimo. Significa soltanto che la sua libertà è più importante del nostro pensiero su ciò che è meglio per lei.
«Quando decidiamo di organizzare una qualsiasi attività per il tramite di mezzi politici, ciò comporta inevitabilmente il ricorso al comando». Il principio fondamentale di una «società realmente libera è la cooperazione volontaria». Al contrario l’interventismo rischia di trasformare la società in una grande caserma, al prezzo non solo dell’efficienza economica, ma del diritto di ciascuno a provare a costruire la propria vita. Il militarismo a Friedman fa orrore, con grande energia diede il suo contributo per l’abolizione del servizio di leva negli Stati Uniti, proprio per questo motivo: per l’erosione della libertà.
Dai saggi ripresi in questo libro, emerge un Friedman che costruisce un liberalismo “forte” sulle premessa di questa “modestia morale”. Grande attualità hanno le pagine sulla fairness, valore ambiguo e che spesso maschera interessi particolari (fair trade è il sinonimo politicamente corretto di protezionismo). L’autore di Liberi di scegliere sa che non esistono risposte semplici, ma sa pure che chi cerca risposte semplici di solito evita di farsi domande scomode.
Come Thomas Jefferson, da lui molto ammirato, Friedman ritiene che il prezzo della libertà sia l’eterna vigilanza. Questi scritti risalgono a prima che I’“età di Milton Friedman” cominciasse, quando la direzione di marcia delle società occidentali «si allontanava dalla libertà, anziché progredire verso di essa». Friedman non si sarebbe fatto illusioni neppure negli anni del suo trionfo. L’esercizio di “modestia morale” al quale ci suggeriva di sottoporci è difficilissimo per i più, mentre al contrario ognuno di noi crede di sapere come gli altri dovrebbero comportarsi, e ovviamente quali beni e servizi andrebbero prodotti e quali no. Friedman, l’abbiamo detto, non preferiva la società libera per ragioni d’efficienza. Ma, notava, «è un bene che il libero mercato sia più produttivo, perché in caso contrario non sarebbe mai tollerato. Il pregiudizio contro di esso è talmente forte che deve avere un vantaggio di cinque a uno per poter sopravvivere».
Da Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2017