Un sorridente mezzobusto femminile con una spilla d’edera in petto, vessillo repubblicano, apriva il numero della rivista II Tempo del 1 giugno 1946, un giorno prima del referendum istituzionale. La settimana successiva, sul Corriere della Sera sarebbe comparso il ben più famoso volto di donna che sarebbe diventato il simbolo della svolta repubblicana.
In quel numero, il direttore Arturo Tofanelli firmava un editoriale in cui invitava a votare per la Repubblica non perché la casa reale pagasse il fio per non aver protetto gli italiani dal fascismo e dalla guerra, come molti repubblicani sostenevano, ma per la necessità di guardare avanti. La Repubblica sarebbe stata «la speranza», laddove «la Monarchia il dubbio» e la «paura».
Seppur di misura e in una situazione confusa che fece gridare ai brogli, gli italiani votarono per rinnovare la forma di Stato. La qualifica di cittadini non sarebbe mai potuta essere messa in discussione, nemmeno con una riforma costituzionale. L’Assemblea costituente, votata insieme alla scelta repubblicana, si sarebbe dovuta fare garante di quella scelta. La parola sudditi, che compariva due volte nello Statuto albertino, sarebbe scomparsa dalla Costituzione, dove invece i vocaboli «cittadino» e «cittadini» sarebbero stati usati 33 volte, al fianco dei diritti e dei doveri che ne caratterizzano la condizione.
Lo Stato di diritto, calpestato durante il regime fascista, sarebbe tornato con una doppia legittimazione: l’equilibro dei poteri ma anche la connotazione democratica di cui il metodo di scelta del capo di Stato era rappresentazione.
In effetti, secondo il significato strettamente istituzionale, la distinzione formale tra sudditi e cittadini dipende dalla modalità di individuazione del rappresentante apicale dello Stato a cui essi sono sottoposti: ereditaria nel primo caso, elettiva nel secondo. I sudditi col re, i cittadini con la repubblica. Nel linguaggio comune, sudditanza esprime un senso di fedele appartenenza all’autorità, laddove cittadinanza evoca un’adesione attiva e partecipe. Questa sovrapposizione di significati ha caricato il referendum istituzionale di un valore che andava al di là del voto sulle responsabilità del re durante il Ventennio, come se una democrazia matura non potesse che essere repubblicana. In effetti, nel linguaggio comune, sudditanza esprime un senso di fedele appartenenza all’autorità, laddove cittadinanza evoca un’adesione attiva e partecipe.
Eppure, è difficile immaginare che danesi, svedesi, belgi, spagnoli e naturalmente inglesi non godano degli stessi diritti e non adempiano agli stessi doveri di un italiano.
Il fatto è che troppo comodamente pensiamo che la cittadinanza sia stata una conquista data una volta per tutte con la scelta di avere un presidente anziché un re.
Le cose, come spesso accade, sono un po’ più complicate.
La Costituzione ci ha consegnato una organizzazione dei poteri attenta al metodo rappresentativo ma meno agli equilibri tra poteri e alla funzionalità dei loro rapporti. Basti pensare all’implicita preferenza per il metodo proporzionale, o alla mancata individuazione del ruolo, più che delle singole funzioni, proprio del Presidente della Repubblica.
Al tempo stesso, principi e regole costituzionali hanno consentito una spesa pubblica fuori controllo che è una contraddizione in termini con l’idea stessa della sostenibilità nel tempo dei diritti e delle libertà. Ma difficoltà di mantenere i presupposti di partenza non è nella storica scelta repubblicana in sé.
Non sappiamo cosa sarebbe stato dell’Italia se fosse rimasta una monarchia. Possiamo però ritenere che la repubblica uscita dal referendum del 2 giugno rappresenti, più che una promessa, un impegno. Per le istituzioni ma anche per i cittadini.
Troppo spesso, invece, i secondi vi hanno abdicato a favore di un potere politico che non ha avuto argini nell’esercizio critico della cittadinanza. La spesa pubblica racconta di un rapporto soverchiante tra noi e lo Stato; il debito, di una mancanza di opportunità per i giovani. Nelle migliori delle ipotesi, abbiamo ridotto la cittadinanza a un continuo esercizio del voto, quando elezione e rappresentanza, diceva Sartori, se sono indispensabili alla democrazia ne costituiscono al tempo stesso il tallone di Achille. Nelle peggiori delle ipotesi, l’abbiamo ridotta a un catalogo di pretese, protezione e sicurezza.
Se guardiamo con franchezza al quotidiano delle nostre vite e delle nostre convinzioni, dovremmo ammettere che a tenere unite le nostre comunità politiche, più che un comune senso di cittadinanza che viene dalla forma repubblica, è la comune impossibilità di sottrarvisi perché come cittadini siamo per primi vittime dell’idea che a risolvere i nostri guai ci debbano pensare i governi, i sindacati, i partiti.
Il 2 giugno è una festa importante. Ma la sua importanza non è in ciò che ci ha regalato, ma nel continuo impegno di libertà e responsabilità che ci ha richiesto. Non sarà mai troppo tardi il giorno in cui, come cittadini, chiederemo allo Stato di occuparsi di meno cose, di intermediare meno spesa, di assumere meno scelte per conto nostro. Provare a ragionare del rapporto tra noi e lo Stato in questi termini, senza abbandonarsi allo sconforto e all’indignazione che a corrente alterna si avvicendano alla querulomania, e anzi provando a fare una sorta di esame delle nostre coscienze e delle nostre pretese, è forse il primo passo per riconoscersi cittadini, giorno dopo giorno.