Ci sono buone ragioni per accontentarsi di un uovo oggi. Specialmente quando non sai se sarai tu a mangiare la gallina domani.
Nel 2018 arriverà un aumento dell’Iva che vale 15,7 miliardi, un punto di Pil. L’aliquota del 10 raggiungerà 1’11,5%, quella del 22 il 25%. Più un incremento delle accise sui carburanti che dovrebbe assicurare maggiori entrate nette non inferiori a 350 milioni annui dal 2019. La «manovrina» di primavera non ha disinnescato le clausole di salvaguardia: ne ha semplicemente rimodulato l’entrata in vigore.
E’ per questo che, nel Parlamento italiano, oggi, a volere con più determinazione lo scioglimento delle Camere e il ritorno alle urne è chi al governo c’è già. L’idea di votare prima della sessione di bilancio nasce dalla convinzione che l’aggravio delle aliquote Iva produrrebbe un’onda d’urto difficilmente gestibile, dal punto di vista del consenso. Da anni si pregano Francoforte e tutti gli dei dell’Olimpo per un po’ di inflazione: ma nessuno è entusiasta di un aumento dei prezzi chiaramente dovuto a un maggiore prelievo.
Le elezioni eviteranno il problema? Se si vota a ottobre, è improbabile che avremo un nuovo governo prima di fine novembre. Non ci saranno i tempi per una manovra che sterilizzi le clausole di salvaguardia: anche se la nuova maggioranza avesse le idee chiarissime su che cosa fare. La campagna elettorale rischia allora non di precedere l’aumento dell’Iva, ma di girare tutta intorno ad esso. Per le opposizioni, diventerà un argomento irresistibile. E’ il modo in cui parliamo di finanza pubblica a renderlo probabile. Da almeno tre anni tutti predicano la necessità di forzare i vincoli di bilancio. I partiti politici si differenziano non perché hanno diverse opinioni, sul punto, ma perché sostengono la medesima opinione con diversa intensità.
Eppure, come ha detto di recente Roberto Perotti, ex commissario alla spending review, che l’austerità fiscale in Italia non ci sia mai stata è un fatto: «L’unica forte riduzione del disavanzo c’è stata con Monti, che però agì quasi esclusivamente sul lato degli aumenti di tasse». Questo in barba alla nostra Costituzione, che prima di qualsiasi accordo europeo ci obbligherebbe all’equilibrio fra entrate e uscite.
In un dibattito nel quale pare destinato a vincere sempre chi spende di più, le clausole di salvaguardia sono un meccanismo semi-automatico per rispettare un certo obiettivo di finanza pubblica. Dovrebbero incentivare la classe politica a mettere mano a una revisione della spesa: quei 15,7 miliardi di entrate attese dall’Iva «rafforzata» corrisponde più o meno ai 16 miliardi di «spending review» immaginata dai diversi Commissari.
Si potrebbe agire anche sul lato delle tax expenditure, agevolazioni e bonus che in Italia valgono quasi 1’8% del Pil e che rendono il nostro fisco incomprensibile e iniquo. Persone che hanno lo stesso reddito non pagano lo stesso livello di imposte, a seconda delle detrazioni di cui beneficiano. Del resto, eliminarle in assenza di tagli di spesa, che preparino una riduzione delle tasse, equivarrebbe a aumentare la pressione fiscale.
E’ proprio nella consapevolezza di queste difficoltà che nascono le clausole di salvaguardia. Se finora non sono state un buon incentivo, è anche perché c’è sempre stata l’impressione che ci fosse qualche scorciatoia da prendere. Come votare a ottobre. Un modo semplice per confondere il contribuente.
Quanti sono scettici sulle virtù salvifiche di deficit e spesa pubblica vengono spesso accusati di concentrarsi troppo sul lungo periodo. Può essere vero. Guai a trascurare, però, un dettaglio: il lungo periodo prima o poi arriva.
Da La Stampa, 26 maggio 2017