Lo Stato compra ancora

L'attivismo dei governi in economia è un destino inevitabile? È il mercato a dover essere il "padrone"? Pubblico vuol dire efficienza?

19 Febbraio 2019

Il Foglio

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Mentre globalizzazione e innovazione tecnologica stanno cambiando radicalmente le nostre economie, gli Stati quasi ovunque cercano conforto nei vecchi arnesi della politica industriale. Ne è un esempio, anche in Italia, il generale auspicio del ritorno dello Stato-imprenditore. Un filo rosso lega il referendum per l’acqua pubblica nel 2011 e il fallimento di quello romano sul trasporto pubblico locale, il boom del Movimento 5 stelle e la trasformazione corporativa e nazionalista della Lega, i rigurgiti interventisti dei governi di centrosinistra nella scorsa legislatura (a partire dalla continua invocazione della Cassa depositi e prestiti) e la definitiva rottura della diga in quella attuale, nella quale non c’è più alcuna remora nel parlare di nazionalizzazioni e imprese pubbliche. Siamo arrivati addirittura alla proposta, o minaccia, di fare della Cdp il “partner strategico di 60 mila piccole e medie imprese”.

Per ogni questione o problema sollevato dal settore privato (dalla ciclica crisi di Alitalia al controllo sui concessionari stradali) la reazione si fa opposta a quella di appena un ventennio fa, quando furono proprio le inefficienze dello Stato imprenditore a consentire la privatizzazione e l’apertura alla concorrenza di ampi e importanti settori dell’economia. Sembra che, almeno per ora, la fase di cessione delle partecipazioni pubbliche si sia esaurita. Non tanto perché sia rimasto poco da privatizzare, anzi: lo Stato detiene la partecipazione diretta, di maggioranza o di controllo, di più di trenta società, tra cui Ferrovie, Anas, Poste, Rai, Enel, Eni e Leonardo, senza contare le migliaia di partecipazioni degli enti locali. Se si è smesso di privatizzare, è per una resistenza ideologica che ha messo in moto il processo contrario.

Negli ultimi anni, il Leviatano – direttamente o indirettamente – ha alzato la testa in diversi mercati, da quello alberghiero attraverso la Cdp passando per il takeover sovranista di Trussardi fino all’operazione Open Fiber, che ha riportato la politica al centro del risiko delle telecomunicazioni. In molti altri si sta attrezzando a un rientro in grande stile: l’abbandono della quotazione delle Ferrovie e la rinuncia alla vendita di Mps, la possibile nazionalizzazione della rete Tim e la crescita della Cassa nell’azionariato della compagnia telefonica, l’ingresso del Mef e delle Ferrovie in Alitalia e il dossier Carige. Addirittura, la proposta di legge per l’acqua pubblica vuole rottamare, oltre agli azionisti privati, le forme societarie di diritto privato, mentre il dibattito pubblico sul capitalismo municipale pare essersi esaurito. In altri ambiti ancora la politica si è insinuata dalla porta di servizio: la riforma della golden power e la cosiddetta norma anti-scorrerie, che di fatto sterilizza lo strumenta dell’Opa ostile, mettono in campo un esplicito potere di interdizione politica sulle operazioni di mercato.

Quello che preoccupa, insomma, non è tanto il rallentamento nelle privatizzazioni, peraltro a dispetto delle continue e mirabolanti promesse nei documenti governativi (l’attuale esecutivo ha fissato un target pari a circa 18 miliardi, un punto di Pil). Il problema sta semmai nell’abbandono delle ragioni che, nel passato, hanno condotto (spesso con successo, anche se non sempre) a privatizzare asset pubblici. I critici delle privatizzazioni generalmente ne evocano due: “fare cassa” e ridurre le inefficienze nelle ex imprese pubbliche. In effetti, in Italia i processi di cessione sono stati perlopiù disegnati con tali finalità. La sovrapposizione della prima sulla seconda ha fatto sì che, una volta incassati i proventi delle vendite, si sia ritenuto esaurito il compito di creare le condizioni per una maggiore efficienza, dimenticando il ruolo cruciale che gioca in tal senso non la privatizzazione in sé, ma la liberalizzazione del settore. Ciò ha condotto, in alcuni casi, a blindare posizioni monopolistiche; in altri a mantenere comunque il controllo pubblico. La privatizzazione parziale, allo stesso modo, può avere effetti benefici sull’impresa privatizzata, ma lascia inalterata la percezione di un mercato comunque non del tutto contendibile.

Secondo i fautori dello Stato in economia, basterebbe un’adeguata governane a garantire l’efficienza, senza dover necessariamente prevedere l’azzeramento del capitale pubblico. Tale approccio ignora però quello che è (o dovrebbe essere) il principale scopo della privatizzazione: garantire non una diversa ingegneria societaria, ma libertà di scelta da parte del consumatore in modo tale che egli diventi l’arbitro della competizione fra più fornitori. In altri termini, una coerente politica di privatizzazioni, condotta fino in fondo e non solo per fare cassa, sposta il baricentro dell’interesse pubblico dall’impresa al mercato e, quindi, a tutti i consumatori – ed è dunque inscindibile dall’apertura del mercato. Non è impossibile immaginare un monopolio pubblico efficiente. Tuttavia, di fronte all’eventualità assai più probabile di un monopolista pubblico inefficiente, non esiste un’alternativa. Peraltro, senza le pressioni della concorrenza, tale monopolio inevitabilmente finirà per diventare un ostacolo all’innovazione. Non per cattiveria ma per gli incomprimibili limiti cognitivi dell’essere umano: le informazioni dei molti, che il sistema economico sintetizza attraverso i prezzi, non possono essere centralizzate senza perderne una gran parte. Neppure la competizione tra aziende pubbliche (o miste) e private in un mercato formalmente liberalizzato rappresenta una soluzione. In primo luogo, i potenziali competitor prima di investire si chiederanno se, e fino a che punto, l’impresa pubblica abbia un accesso privilegiato alle segrete stanze. Il mero sospetto di una maggiore efficacia nella cattura dei regolatori implica un maggiore costo di entrata sul mercato, una più bassa propensione al rischio di impresa e quindi, a parità di altri elementi, una minore intensità competitiva. Secondariamente, la concorrenza non si esaurisce nella libertà di scelta dei consumatori: presuppone anche che le imprese meno efficienti siano espulse dal mercato, e i loro asset siano tanto contendibili quanto le loro quote di mercato. La partecipazione pubblica al capitale di un’impresa è de facto (anche se non necessariamente de jure) incompatibile col fallimento.

Da ultimo, e per le ragioni appena dette, il ritorno della proprietà pubblica equivale quasi per definizione a un dazio sull’innovazione e, quindi, sul tentativo di anticipare e soddisfare i bisogni delle persone. Non vale neppure l’osservazione che l’azionista pubblico, non avendo come principale obiettivo la massimizzazione degli utili, potrebbe favorire maggiori investimenti in ricerca e sviluppo: la storia delle imprese di Stato è piena di ottime idee, generosamente finanziate, finite in un vicolo cieco. Succede anche nel mercato. Solo che in questo caso il loro fallimento non grava sulla collettività. L’innovazione non nasce (solo) dai soldi, ma da un processo di tentativi e fallimenti che è reso possibile – anzi necessario – da un ambiente aperto. Il capitalismo di Stato darà maggiore capacità di intervento alla politica e alla burocrazia, magari con le più nobili intenzioni, ma renderà la società nel suo complesso meno dinamica e plurale e, soprattutto, infiacchita da uno Stato tuttofare. Questo spiega perché appaia tanto seducente per i politici stessi: per la medesima ragione, dovrebbe essere visto con diffidenza da tutti gli altri.

Da Il Foglio, 19 febbraio 2019

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