Lo Stato leggero di Franco Debenedetti

Se fossi un Millennial e mi trovassi in libreria a sfogliare Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio, euro 18 pp. 336), sarei probabilmente tentato da altro. Alzi la mano chi conosce, fra i nati dopo i Novanta, qualcuno in grado di raccontare cosa fossero l’Iri e la politica industriale. Oggi Facebook, Linkedln e Twitter […]

23 Maggio 2016

La Stampa

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Se fossi un Millennial e mi trovassi in libreria a sfogliare Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio, euro 18 pp. 336), sarei probabilmente tentato da altro. Alzi la mano chi conosce, fra i nati dopo i Novanta, qualcuno in grado di raccontare cosa fossero l’Iri e la politica industriale. Oggi Facebook, Linkedln e Twitter hanno trent’anni in tre e capitalizzano 850 miliardi di dollari. L’Ilva di anni ne ha più di cinquanta, è ancora una delle più grandi acciaierie d’Europa eppure non vale più del prezzo pagato da Zuckerberg per comprarsi Instagram. Invece gli ottantatré anni di Franco Debenedetti sono senza prezzo: ingegnere, dipendente delle aziende di famiglia, manager Fiat, amministratore delegato di Olivetti e Sasib, Senatore della Repubblica, presidente dell’Istituto Bruno Leoni.

Scegliere i vincitori, salvare i perdenti è molto più di un libro contro «l’insana idea della politica industriale», come recita la didascalia a piè di pagina. Non è nemmeno un diario di bordo, come qualcuno potrebbe credere leggendo qua e là le note autobiografiche. Nelle trecento pagine, lette e rilette da Debenedetti con precisione maniacale, c’è di tutto: Prodi e Keynes, General Motors e pianificazione sovietica, Piketty e Mazzucato, Renzi e Merkel, Facebook prima di Facebook. «Nel 1998 Roberto Colaninno mi chiese di fondare un’università ad Ivrea, un luogo di formazione che, partendo dalla storia e dalla cultura Olivetti, innervasse la Telecom appena conquistata. Gli proposi un istituto di Interactive Design, il primo nel suo genere». Debenedetti coinvolse accademici europei ed americani, ne venne fuori un centro di eccellenza per trenta studenti da tutto il mondo. Cinque anni dopo Telecom passò a Tronchetti Provera e le stanze riarredate da Sottsass e Zanini restarono vuote. Fra i progetti elaborati a Ivrea, uno si chiamava «Connected Communities» e somigliava al prototipo inventato da quel mediocre studente di Harvard nel frattempo diventato il sesto uomo più ricco al mondo. Più che un libro contro la politica industriale la quale, per stessa ammissione dell’autore, nei primi anni della sua storia miete successi -, il saggio di Debenedetti è un argomentato atto d’accusa contro l’interventismo statale in tutte le sue manifestazioni. Debenedetti riporta tutto alla distinzione di Oakeshott fra «lo Stato custode della legge che non impone fini propri, ma semplicemente facilita ai cittadini il raggiungimento dei loro, e lo Stato che usa la legge per proprie finalità morali». Il primo approccio è quello che «nel Settecento fece dell’Europa un fenomeno senza eguali», il secondo produsse la pianificazione sovietica, l’Ilva e i ritardi di cui oggi l’Italia soffre.

Nella storia del Novecento la politica industriale altro non è che «il più visibile» degli interventismi statali, dunque «strumento della politica quotidiana». Oggi di quella cultura è rimasto poco, mentre è «ancora diffusa l’aspettativa che a carenze e storture dell’economia possa porre rimedio solo lo Stato». La Cassa depositi e prestiti e la banda larga, il Fondo Atlante e l’Ilva, il piano per il Sud, la società delle reti e via elencando. Le parole magiche sono «rilevante e strategico», nel qual caso «l’intervento è decretato ex cathedra». Con buona pace dei miliardi di Zuckerberg e delle speranze dei Millennials.

Da La Stampa, 23 maggio 2016

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