Lo Stato è il più importante investitore a Piazza Affari (oltre che azionista della Borsa stessa): le partecipazioni dirette e indirette del Governo superano i 57 miliardi di euro di capitalizzazione (il valore comprende anche Rai e Ferrovie, attualmente non quotate). Un’indagine condotta dal quotidiano MF ha inoltre mostrato che, nell’ultimo anno, il peso delle quote pubbliche è cresciuto del 13,8 per cento. A questi vanno aggiunti i pacchetti azionari in pancia agli enti locali o alle regioni, per esempio nelle grandi ex municipalizzate. Inoltre, le partecipazioni pubbliche non solo si contano, ma si pesano: poiché spesso il Mef o la Cdp detengono quote di controllo, la loro influenza sulla Borsa va ben al di là del conteggio delle quote e arriva a oltre un quarto dell’intero listino. Per avere un termine di paragone, la capitalizzazione complessiva della Borsa italiana a fine luglio 2021 valeva circa 724 miliardi.
Di fronte a questi dati strappa davvero un sorriso (il nostro, amaro) la costante polemica contro il neoliberismo imperante. Anche perché i numeri non rendono giustizia sulla pervasività della presenza pubblica nell’economia. Infatti, da un lato, la Cdp ha ormai ramificazioni ovunque, che si sono ulteriormente consolidate attraverso i fondi creati per sostenere la liquidità delle imprese durante la crisi del Covid e che, invece, hanno rappresentato uno strumento di penetrante espansione nel capitale delle imprese non quotate. Dall’altro lato, lo Stato non condiziona le decisioni delle imprese solo attraverso gli investimenti in equity, ma anche per mezzo di molti altri strumenti e comportamenti (dalla produzione normativa al disegno del sistema tributario, dal modo in cui le norme leggi vengono in concreto applicate fino alla moral suasion), a loro volta (spesso) orientati dagli interessi delle aziende partecipate. Insomma: dopo la fase (in chiaroscuro) delle privatizzazioni negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, non c’è dubbio che oggi ci troviamo nuovamente in un paese, se non controllato, quanto meno fortemente condizionato dalle partecipazioni statali.
In questo panorama desolante, è un po’ difficile considerare il disimpegno dal Monte dei Paschi di Siena, coerente con impegni già presi con le istituzioni europee, un cambio di passo – o la prima avvisaglia del ritorno dei “privatizzatori”. Anzi, il Governo Draghi non si è tirato indietro in altre operazioni, da Tim ad Autostrade, che hanno visto il ritorno dello Stato in settori dai quali in precedenza si era ritirato. Viene dunque da chiedersi, usando le parole del premier, se e come tutto questo capitale pubblico possa essere qualificato come “debito buono”, non tanto alla luce dei ritorni sull’investimento (che in alcuni casi ci sono), quanto per le sue conseguenze di lungo termine sul dinamismo e l’attrattività del paese. Sappiamo bene che più la presenza pubblica è solida in un settore, meno i concorrenti saranno indotti a entrare e misurarsi coi rivali controllati dallo Stato, nella consapevolezza che essi sono inevitabilmente “più uguali degli altri”.
La fase delicata che stiamo attraversando implica inevitabilmente un incremento della spesa pubblica. Prima o poi, però, questa bolla scoppierà e torneremo a fare i conti con la realtà di una finanza pubblica drogata e insostenibile, e di un mercato egemonizzato dallo Stato. Sarebbe meglio prevenire questo problema, mettendo un freno e possibilmente ingranando la retromarcia, per evitare che l’ipertrofia pubblica divori quel che resta del nostro apparato produttivo.
17 agosto 2021