Accada per talento o per fortuna, a volte le idee diventino aziende, e alcune di quelle aziende diventano marchi riconosciuti, quasi elementi della vita quotidiana delle persone. Lo stile italiano, la tanto celebrata creatività italiana, sono ancor oggi apprezzati nel mondo grazie a sforzi imprenditoriali di questo tipo.
Nel corso di quest’avventura, può capitare che si voglia cambiare organizzazione per renderla più adeguata agli sviluppi dell’azienda.
Così hanno fatto, all’inizio degli anni Duemila, Dolce e Gabbana. Hanno proceduto costituendo una società con sede in Lussemburgo, a cui cedere un marchio che era ancora di loro proprietà come persone fisiche, mentre aveva raggiunto una notorietà internazionale.
Da qui, l’accusa di esterovestizione, ossia di aver collocato la sede di una società all’estero a fini elusivi, e l’avvio di un processo tra il penale e il tributario che è arrivato a sentenza definitiva fuori dal tribunale prima che dentro.
Si è chiusa nei giorni la vicenda penale, con un giudizio di non colpevolezza che stride con la condanna già comminata dal ‘tribunale’ dell’opinione pubblica. Il grido «agli evasori» si è levato al seguito delle accuse della giunta di Milano, in particolare dell’assessore al commercio D’Alfonso, troppo tardi riconosciute come improvvide dal sindaco Pisapia.
Non si conoscono ancora le motivazioni della Cassazione, ma non è improbabile che esse riecheggino quanto già prospettato da un inascoltato sostituto procuratore generale che, nelle conclusioni al processo alla Corte di Appello, aveva dichiarato la piena liceità della scelta della sede societaria. Una requisitoria a tratti eroica per il richiamo al «salto culturale» che il sistema tributario deve fare di fronte alla globalizzazione dei mercati.
Le aziende, al pari degli esseri umani, scelgono dove aver casa in base a tanti fattori. Compresa la vessatorietà, non solo per aliquote applicate, dei regimi fiscali. Possono ancora farlo, nonostante i tentativi di rendere tali scelte ipotesi di evasione. E non è detto che lo facciano solo per motivi tributari, ma anche per la vivacità della borsa, la vicinanza a economie più floride, la stabilità del sistema giuridico e giudiziario. Nella classifica mondiale Doing Business uscita pochi giorni fa, l’Italia è sempre 147 su 189 paesi alla voce «Enforcing Contracts». Siamo fra i pochissimi Paesi che, da che la Banca mondiale ha cominciato a stilare tale classifica nel 2002, non hanno fatto un passo in avanti.
Non sono i certificati «made in Italy» o sportelli per investitori esteri a risvegliare voglia di fare e investimenti. Non almeno finché le principali ‘pubblicità’ che circolano all’estero sono quelle di una gogna mediatico-tributaria per due figli eccellenti del genio imprenditoriale italiano o di una fuga obbligata del Maestro Muti per impossibilità di fronteggiare il sindacalismo italiano. Solo per fare due esempi illustri, gli ultimi, in un’infinità di episodi meno noti ma non meno gravi.