17 Ottobre 2022
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Economia e Mercato
Le misurazioni della libertà sono sempre un esercizio imperfetto. L’ultimo rapporto del Fraser Institute suggerisce che vi sia stata, nel 2020, una contrazione della libertà economica. Il punteggio medio nel mondo è sceso a 6,84 nel 2020 da 7,00 nel 2019. Si sono persi, in un anno, i miglioramenti che si erano avuti negli ultimi dieci. Non negli ultimi venti: nel 2000 il valore medio era 6,59.
La pandemia ha avuto sicuramente un peso, su diversi degli indicatori-chiave: libertà degli scambi, libertà di fare impresa (cosa c’è di più radicalmente avverso alla libertà di fare impresa delle chiusure obbligatorie?), peso dello Stato. Tuttavia, le misure non farmaceutiche hanno incrociato anche dimensioni che non sono immediatamente rilevanti, pensando agli interventi pubblici tradizionali. In un paper di prossima uscita sul «Journal of Institutional Economics», Vincent Miozzi e Benjamin Powell, entrambi del Free Market Institute della Texas Tech University (Powell è il direttore), hanno messo a fuoco proprio l’effetto delle restrizioni sulla libertà economica.
«Indipendentemente dal fatto che le politiche adottate dai governi in risposta alla pandemia di Covid-19 abbiano aumentato o meno l’efficienza, migliorato la salute o i risultati economici – scrivono -, queste politiche hanno rappresentato una riduzione significativa della libertà degli individui di impegnarsi in un’ampia gamma di attività economiche». Il loro studio è il primo tentativo di offrire una misurazione del fenomeno.
Miozzi e Powell utilizzano il Covid-19 Stringency Index di «Our World in Data», che esamina tredici indicatori di cui nove sono rilevanti per la libertà economica (che non è stata condizionata da attività di comunicazione istituzionale, vaccinazioni, teste contact tracing, pure esaminati da Our World in Data). Gli autori sono pure consapevoli che fra le strategie di contrasto alla pandemia ve ne sono state alcune che hanno ampliato, anziché restringere, la libertà economica. Per esempio negli Stati Uniti è stato reso più facile praticare la medicina in uno Stato diverso da quello nel quale si era autorizzati alla professione. Mentre le esportazioni di dispositivi di protezione e materiale medico sono state spesso ridotte attraverso norme specifiche, le importazioni sono state altrettanto spesso liberalizzate. Le autorità sono state meno rigide, rispetto a imprese che hanno cambiato le proprie specialità merceologiche, che fossero distillatori che producevano igienizzanti o aziende tessili che si sono messe a realizzare camici e mascherine.
In linea generale, però, le misure non farmaceutiche hanno ridotto lo spazio dell’azione economica. Producendo smottamenti in quella che potremmo definire la «geografia del libero mercato». Australia e Nuova Zelanda tendono a essere sempre ai primi posti nelle classifiche di libertà economica: ma sono anche fra i Paesi che più hanno adottato misure restrittive.
In qualche modo, la possibilità di «spegnere» un’economia è positivamente correlata col reddito pro capite: i Paesi più ricchi hanno potuto permettersi lockdown più stringenti e prolungati. Il Paese meno «chiusista» del mondo è stato il Burundi. Fra i primi dieci figurano Nicaragua, Tanzania, Seychelles e Niger: in ciascuno di questi casi a contare più che la dedizione alla libertà individuale è stata presumibilmente l’impossibilità, per apparati pubblici deboli, di immaginare restrizioni che potessero venire effettivamente fatte rispettare. Ma le cose non sempre sono andate così: nell’ultimo quintile, quello dei Paesi più «chiusisti», ci sono Argentina, India, Honduras, Perù, Bolivia, Bangladesh, Iraq, Ruanda e Nepal.
Il Paese sviluppato meno «chiusista» è stato Taiwan, seguito dal Giappone: sia in un caso che nell’altro le restrizioni riguardavano soprattutto la possibilità di entrare e uscire nel Paese, più che le attività al suo interno. Paradossalmente, per lo stesso motivo la Nuova Zelanda figura nel primo quintile di Paesi meno «chiusisti» mentre l’Australia è al 111mo posto su 160 Paesi. Miozzi e Powell non negano l’importanza del libero movimento delle persone, anche per l’economia, ma hanno provato a concentrarsi su norme e divieti di impatto immediato sui cittadini. L’esito del loro lavoro è un tentativo di «aggiustare» l’andamento dell’indice di libertà economica del Fraser Institute, alla luce di questo nuovo insieme di indicatori di «chiusura pandemica». Ne esce un indice della libertà economica «pesato», con indicazioni interessanti.
Per esempio, dal 2019 al 2020 la posizione dell’Italia è leggermente migliorata, rispetto al rapporto «ufficiale» del Fraser Institute: abbiamo ripreso tre posizioni. Ma se venissero considerate le restrizioni pandemiche, avremmo dovuto perderne 23. L’Inghilterra ne ha perse nove: alla luce delle sue politiche pandemiche, avrebbe dovuto perderne 17. Taiwan ha perso 7 posizioni, ma avrebbe dovuto guadagnarne 9. La Norvegia ha guadagnato cinque posizioni, avrebbe dovuto guadagnarne 21, la Svezia è risalita di 3 posti e avrebbe dovuto risalire di 17.
L’esercizio è interessante sul piano empirico ma anche teorico. Ci ricorda, appunto, l’imperfezione delle misure di libertà economica. Ma ci rammenta pure come la libertà davvero si dice al singolare e distinguere questioni di libertà economica da altre di «libertà civile» è meno facile di quanto non piacerebbe a quei leader politici che vorrebbero avere l’una senza l’altra.
Da L’Economia del Corriere della Sera, 17 ottobre 2022