Il principale leader dell’opposizione venezuelana, il quarantenne Leopoldo López, prigioniero politico nel Venezuela di Nicolás Maduro, rischia di tornare in carcere ora che un articolo del New York Times ha riportato alcune sue frasi sulla situazione sempre più drammatica del Paese e sui rischi che corre in prima persona: «La situazione è molto delicata». «Potrei essere sul punto di tornare in prigione». Queste frasi di López, riportate da Wil S. Hylton, sono di ottobre, quando i militari chavisti hanno sequestrato il capo delle guardie del corpo di López: «Non c’era alcun motivo legale per farlo».
La scelta di pubblicare queste frasi, testimoniando contatti con la stampa che gli sono stati proibiti dal regime, possono accelerare il ritorno in carcere: segnale evidente che la situazione è grave oltre che delicata. Maduro ha posticipato a maggio le presidenziali, nella speranza di dare una parvenza di credibilità con la partecipazione di qualche candidato delle opposizioni (maggioranza in un Parlamento esautorato), che avevano rifiutato di presentarsi, dato che i veri leader sono costretti all’esilio, come Antonio Ledezma, o estromessi, come Henrique Capriles e López, che dal New York Times lancia un messaggio di unità: «Molti dell’opposizione hanno risentimenti personali, dobbiamo andare oltre. Quattro anni di carcere mi hanno insegnato che la rabbia va usata in prospettiva. Tutti sono necessari per trovare una via d’uscita al disastro».
I genitori di Leopoldo López, che vivono in Spagna, sono preoccupati per il figlio. Ma più forte della paura è l’orgoglio per il suo esempio. A fine anno hanno ritirato in Italia il premio dell’Istituto Bruno Leoni, che ha curato la pubblicazione del libro «Chi si stanca perde» (Marsilio, prefazione di Mario Vargas Llosa), scritto da López in carcere, dove nel 2014 è stato rinchiuso a seguito di un farsesco processo politico per incitamento alla violenza e istigazione a delinquere (condanna di 13 anni e 9 mesi). Al Corriere spiegano perché il figlio non è fuggito all’estero. Leopoldo Gil: «Si è consegnato alla giustizia del regime per mostrare quanto è ingiusta, mettendo a nudo il governo, che calpesta i diritti ogni giorno. Ci sono almeno altri 350 prigionieri politici. Io stesso sono dovuto andare in esilio a seguito di un processo politico per pubblicazione della notizia che l’allora presidente dell’assemblea nazionale, Diosdado Cabello, era indagato per narcotraffico».
Antonieta, che torna spesso a Caracas, aggiunge: «Mio figlio è stato torturato, tenuto in isolamento per 35 giorni. Non gli hanno fatto vedere nessuno, neanche l’avvocato. E ha visto suo figlio più piccolo, Leopoldo, camminare per la prima volta in carcere, nel Ramo Verde, e Manuela, che oggi ha 8 anni, per tre anni ha perso il padre. Oggi Leopoldo non può fare attività politica, né parlare con i sostenitori, neanche sui social. È sequestrato».
Quando gli chiediamo qual è il ricordo più vivo del figlio, Antonieta cita la frase che ha trasformato in programma politico. «Tutti i diritti a tutti i venezuelani! Ha un significato speciale, soprattutto sotto una dittatura, come in Venezuela». A Leopoldo Gil spuntano le lacrime: «Lui l’ha sperimentata anche in carcere questa frase; c’era un altro prigioniero, di origini umili, un soldato, che aveva un bambino piccolo e ha chiesto a mio figlio di battezzarlo. Durante la cerimonia, mio figlio ha detto: “Spero che mio figlio e che il mio figlioccio vadano insieme all’università”».
Sembra incredibile che in Italia ci siano politici che indicano il Venezuela come modello. Com’è possibile? Per Leopoldo Gil: «solo l’ignoranza può spingere qualcuno a vedere del buono nel modello socialista di Chávez e Maduro, che ha trasformato un paese ricco di risorse naturali in un paese povero: si muore per malattie banali, il 70% della popolazione è denutrito, la criminalità è ai massimi, il 90% di chi è in carcere non è ancora stato giudicato. Andate in Venezuela, parlate con i venezuelani, vi diranno com’è la realtà».
dal Corriere della Sera, 3 marzo 2018