Lotta all'inflazione, non sparate su Fed e Bce

Il rialzo dei tassi stempera le troppe illusioni sulla possibilità di un illimitato ricorso al debito pubblico

17 Luglio 2023

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Politiche pubbliche

Qualche settimana fa l’autorità Antitrust ha pubblicato una densa indagine conoscitiva sulla distribuzione dei carburanti in Italia. Il casus belli, come ricorderete, era stata la serie di aumenti dei prezzi al dettaglio durante il 2022 e all’inizio del 2023. Dopo il Covid, i prezzi energetici sono schizzati verso l’alto, segnalando la ripresa di una domanda prima compressa (chi fa benzina, se non può uscire di casa?). In più, coraggiosamente il governo Meloni aveva deciso di non rinnovare il taglio delle accise voluto dall’esecutivo precedente: evitando così di continuare a sussidiare indiscriminatamente tutti i consumatori. Le attività estrattive non sono ben viste nel nostro spicchio di mondo, che per agevolare la «transizione energetica» le disincentiva: con una serie di politiche che sono disegnate per farne aumentare il prezzo. In più, il tasso d’inflazione non è più quello al quale eravamo abituati durante i primi quindici anni dell’euro.

Beato il Paese in cui i politici possono trattare i loro elettori come donne e uomini adulti, e ripercorrere insieme con pazienza i fatti che avevano indotto gli uni e gli altri a temere una pressione verso l’alto dei prezzi (a partire da guerra e crisi energetica). Invece gli uni e gli altri giocano a dimenticare ciò che hanno temuto e predetto, suppongono che non vi siano problemi di scarsità ma semplicemente che ci sia chi apre il rubinetto col contagocce, per profittare del bisogno altrui. Supposizioni, diceva già Manzoni parlando non di benzina ma di grano, che non stanno né in cielo, né in terra «ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza». E’ esattamente quello che è avvenuto coi carburanti. Il colpevole dei rincari doveva essere la speculazione, e chi altri? L’indagine dell’antitrust è un documento interessantissimo, un’utile enciclopedia su come funziona la distribuzione dei carburanti in Italia. Dal punto di vista pratico, chiarisce un fatto semplicissimo: non c’era nessuna speculazione.

Purtroppo non è il nostro l’unico Paese in cui governanti e governati sono uniti dal pervicace rifiuto di fare i conti con la realtà. Eurostat ci ha ricordato che, se i prezzi a giugno sono saliti «solo» del 5,5% rispetto all’anno precedente contro il 6,1% di maggio, la componente core dell’inflazione, quella depurata degli elementi più volatili, è ancora al 5,4%, in leggera crescita dalla rilevazione precedente. Se guardiamo i prezzi dei beni alimentari, l’aumento è dell’ordine del 12% in un anno nel nostro Paese, del 15% in Francia, veleggia verso il 20% in Germania. Com’è noto, le persone a reddito più elevato tendono a sentire meno il peso delle spese per il cibo, che occupano una frazione modesta del loro reddito. Esse invece sono fortemente avvertite da chi ha un reddito basso, che tende a non avere risparmi per ammortizzare eventuali oscillazioni violente del costo della vita.

In Italia, nonostante i salari stagnanti, la classe politica tende a pensare che abbia diritto di voto solo chi ha sottoscritto un mutuo a tasso variabile e quindi chiede alla Bce di mettere la testa sotto la sabbia. Negli altri Paesi una maggiore consapevolezza del fenomeno porta a ricorrere a rimedi pericolosi, come i controlli sui prezzi, che rischiano di essere controproducenti. In Francia e Germania i consumi alimentari sono scesi di circa il 10% dall’inizio del conflitto russo-ucraino ad oggi. Alcuni sondaggi segnalano come più della metà dei francesi abbia ridotto i consumi di carne. Vi sono stati analisti che hanno collegato l’andamento dei prezzi alimentari alle rivolte delle ultime settimane.

L’inflazione andrebbe combattuta coi mezzi della politica monetaria, ma essi sono sgraditi, non solo in Italia, ai politici. Primo, il rialzo dei tassi d’interesse stempera le troppe illusioni sulla possibilità di un illimitato ricorso al debito pubblico, che negli anni scorsi hanno abbracciato l’intero arco costituzionale. Secondo, il modo in cui viene azionata la politica monetaria è misterioso per i più, che raramente ne riconoscono i meriti agli istituti di emissioni e ancor meno ai governi che ne nominano i vertici. Meglio far altro. Per esempio parlare di Greedflation, sostenere cioè che l’inflazione venga dall’avidità delle grandi industrie, variante della speculazione. «Non consentiremo alle imprese di fare margini illegittimi», ha detto il ministro dell’economia francese Le Maire.

L’avidità non è un altro virus comparso dopo il Covid. Verosimilmente i manager delle grandi e piccole aziende non erano meno avidi nei trent’anni di inflazione contenuta che abbiamo alle spalle, di quanto non siano ora. Ciò che è avvenuto, più prosaicamente, è che la pandemia ha prodotto una serie di aggiustamenti nelle filiere di fornitura. Quando la domanda è ripartita, le imprese ci hanno messo (e ci stanno mettendo) del tempo per recuperare capacità produttiva, con gli Stati costantemente impegnati a imbrogliare le carte: per esempio a finanziare capacità produttiva, ma non necessariamente dove servirebbe, alle proprie condizioni. I prezzi sono saliti in conseguenza di questo fatto e hanno potuto salire perché dal 2011 a oggi le banche centrali hanno «stampato moneta» a più non posso.

La disponibilità di mezzi monetari consente queste alterazioni dei prezzi. Qualcuno se ne approfitta? Certo, esattamente come negli anni Settanta gli imprenditori guadagnavano dallo scarto fra l’aumento dei prezzi e quello dei salari. Ma a furia di continuare a negare che l’inflazione abbia a che fare con moneta e banche centrali, non stiamo solo guardando il dito: ci stiamo proprio dimenticando della luna.

da L’Economia del Corriere della Sera, 17 luglio 2023

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