2 Aprile 2019
Corriere del Ticino
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Lo scontro è stato molto duro. Da una parte i colossi del web, che hanno provato a far pesare tutta la loro capacità d’influenza; dall’altra i grandi editori, non meno determinati a difenderei loro interessi. Alla fine, sembra che abbiano avuto la meglio i secondi, dato che il Parlamento europeo ha deciso d’introdurre una protezione per il copyright, per avviare un braccio di ferro con i gruppi presenti in rete e con l’obiettivo di fare attribuire un compenso alle imprese editoriali e agli autori stessi.
In linea di massima, questo esito è stato salutato da più parti come un passo in avanti nella difesa dei diritti individuali. La ragione è che, da tempo, copyright e brevetto industriale sono ricondotti nell’alveo di quella è stata definita «proprietà intellettuale». Entro questo quadro, una migliore tutela del copyright condurrebbe a una più adeguata protezione della proprietà stessa: un’istituzione che è cruciale in ogni società libera e che da John Locke in poi vari autori hanno perfino fatto coincidere conia libertà stessa.
In realtà, il dibattito sul tema è assai aperto. Qualche anno fa, per iniziativa dell’Istituto Bruno Leoni, è stato pubblicato in italiano un volume che raccoglieva quattro saggi: due scritti – da Richard Epstein e James De Long – difendevano la proprietà intellettuale sulla base di argomenti consequenzialisti, sostenendo che in assenza di brevetti e copyright non avremmo incentivi e quindi non vi sarebbe spazio per ricerca e creatività, mentre gli altri due di Henri Lepage e Tom Palmer rigettavano la proprietà intellettuale sostenendo che si tratta di un monopolio artificiale che chiude il mercato e viola la libera iniziativa, ma soprattutto limita il libero impiego dei titoli sulle proprietà materiali.
I quattro autori sono tutti collocabili all’interno di quella tradizione, il liberalismo classico, che guarda con fave al libero mercato e alla tutela dei diritti individuali. Sul tema, però, essi esprimono posizioni assai distinte e arrivano a esiti contrapposti. Quanti spesano le tesi dell’economie mainstream (che ritiene necessario proteggere autori e inventori) affermano che lo sviluppo della civiltà esige che a un creatore venga riconosciuta una sorta di «privativa», mentre gli altri enfatizzano soprattutto le ragioni di principio: persuasi, ad esempio, che quando John Smith scopre per primo una soluzione tecnologica non acquisisce il diritto d’impedire a Frank Taylor di fare la stessa cosa il giorno dopo, con i propri mezzi e la propria intelligenza.
D’altra parte, che la proprietà detta «intellettuale» non sia esattamente una proprietà lo si sa da sempre. Basti ricordare che fu introdotta solo in età moderna, probabilmente perla prima volta a Venezia (allo scopo di proteggere e in solare gli inventori, ma anche per controllare la produzione di ami), e che si tratta di una proprietà «a termine»: la cui durata è fissata dalle leggi e in modo del tutto arbitrario. Se una casa può essere di proprietà mia e dei miei eredi per sempre, per quale motivo un brevetto può durare solo vent’anni? Gli stessi legislatori che hanno introdotto la proprietà intellettuale sono consapevoli di usare il riferimento alla proprietà solo in termini retorici ed evocativi. Per giunta, da tempo c’è un’ampia letteratura economica che critica con solidi argomenti il conseguenzialismo alla base di copyright e brevetti. In un testo che ormai è un classico, Against Intellectual Monopoly (del 2008, che ovviamente è disponibile gratuitamente nella rete), Michele Boldrin e Michael Levine sostengono che i monopoli introdotti dalla proprietà intellettuale intralciano il libero mercato, impedendogli di esprimere tutte le sue potenzialità. A giudizio dei due economisti la proprietà intellettuale alza barriere ingiustificate, mentre autori e inventori possono trovare fonte di remunerazione alternative e più efficaci.
È ciò che, anche senza conoscere la scienza economica o quella giuridica, hanno fatto in questi anni tutti quei gruppi musicali che, constatata l’impossibilità di finanziarsi conia vendita dei dischi, hanno iniziato a usare la gratuità della rete per diventare famosi, riuscendo poi a monetizzare i loro sforzi grazie a concerti e merchandising. Lo stesso sviluppo delle nuove tecnologie che ha reso scaricabili gratuitamente e con facilità musiche e testi, insomma, ha d’altro lato favorito la nascita di nuove forme di business.
La regolamentazione europea recentemente introdotta promette agli autori di poter accedere alle risorse raccolte dai giganti della rete. Si vedrà. Da più parti, però, si evidenzia come essa potrebbe pure ostacolare in Europa lo sviluppo delle economie digitali: a danno di tutti.
dal Corriere di Ticino, 2 aprile 2019