18 Ottobre 2021
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Sessant’anni fa, il 30 ottobre 1961, ci lasciava Luigi Einaudi. È una banalità ricordare che Einaudi giocò un ruolo cruciale nel situare la nascente Repubblica nel campo delle democrazie a economia di mercato. Einaudi era un economista «applicato», più interessato ai problemi empirici che alla teoria e un accademico eminente. Fu, in un certo senso, il maestro di tutta una generazione. È probabile che Einaudi verrà ricordato, nei prossimi giorni, in tanti modi. Si faranno raffronti, ora esagerati ora impietosi, coi protagonisti dell’oggi. Gli uomini pubblici sottolineeranno la serietà del suo rapporto con le istituzioni. Gli studiosi si aggrapperanno a qualche pagina della sua vastissima produzione. Qualche politico lo citerà a sproposito, sull’imposta patrimoniale. È originale la scelta dell’università Iulm, che invece ricorda Einaudi come «comunicatore». Il più grande divulgatore d’economia nella storia del nostro Paese.
Corriere ed Economist
A differenza di molti cattedratici, l’economista piemontese non aveva problemi a definirsi anche un giornalista. A ventidue anni, nel 1896, aveva brevemente ricoperto un incarico redazionale alla Stampa-Gazzetta Piemontese diretta da Luigi Roux per poi diventarne un collaboratore. Il quotidiano torinese aveva un occhio di riguardo per Giolitti, per il quale il futuro presidente non aveva, diciamo così, granché simpatia, e pertanto egli arrivò sulle pagine del Corriere della Sera di Luigi Albertini.
Giovanni Pavanelli ha calcolato che, dall’inizio della collaborazione all’estromissione di Albertini, Einaudi scrisse su queste pagine 1700 articoli. Fra il 10o8 e il 1946 egli collaborò anche all’Economist. Forse proprio la sua esperienza di giornalista valse a Einaudi quella straordinaria facilità di scrittura che ancor oggi ne fa una lettura non solo istruttiva ma anche piacevole. Non è sminuire Einaudi parlarne come di uno «scrittore di economia», perché egli fu uno scrittore e forse uno dei massimi prosatori in lingua italiana dell’ultimo secolo. Il punto non è però solo una questione di stile. Se c’è una figura insigne del Novecento italiano del tutto immune dalla perniciosa abitudine di considerare profondo ciò che è semplicemente oscuro, e scrivere di conseguenza, è proprio l’autore delle «Prediche inutili».
Istruire e parlar chiaro
Questo ha a che fare con il ruolo particolare che Einaudi riconosceva alla stampa. Tutt’oggi viene ritenuta un problema la scarsa alfabetizzazione economica e finanziaria. È entrata perfino tra le ragioni con cui si è cercato di spiegare l’incalzare del populismo. In Italia (ma non solo) non si apprendono i rudimenti dell’economia alle scuole superiori. Una persona può tranquillamente sottoscrivere un mutuo senza avere idea di che cosa sia il tasso d’interesse. Ma mentre, diciamo la verità, nelle proprie scelte private è verosimile che la molla dell’autointeresse conduca i singoli individui a sopperire in qualche modo alle lacune ereditate dalla scuola, nel campo delle scelte pubbliche le cose vanno diversamente. Ciascuno non sopporta che in minima parte l’esito delle decisioni che tutti insieme prendiamo il giorno delle elezioni. Proprio per questo, le persone tendono a votare più sulla base di un’appartenenza, di una simpatia o di un’intuizione, che per aver passato in rassegna tutti gli argomenti pro o contro la proposta avanzata dal partito X o dal partito Y.
Einaudi non pensava che la scuola dovesse trasformare gli italiani in un popolo di economisti e suggeriva che il capitolo dodicesimo dei Promessi sposi (in cui Manzoni ci ricorda che per evitare che non ci sia pane bisogna consentire al prezzo delle granaglie di rincarare) valesse di più di qualsiasi manuale d’economia alla portata di uno studente di liceo. Ma egli era pure convinto che l’economista dovesse parlar chiaro, scrivere in modo comprensibile ai più, aiutando le persone a familiarizzare con quel tanto di logica economica che è necessaria per essere elettori consapevoli. Einaudi biasimava che «come tutte le congreghe di iniziati, anche quella economica parla un linguaggio proprio, che allontana i laici». Per questo la stampa, il dibattito pubblico, svolgono un ruolo così importante: perché sono il momento nel quale le scoperte dell’economia possono incontrare la curiosità di chi economista non è.
Necessità delle scelte
In un saggio del 1944 (appena ristampato nell’antologia curata da Alberto Giordano, «Luigi Einaudi e la politica», IBL Libri, 2021), egli ammonisce che guai che si radichi «l’idea nefasta, trista eredità del Ventennio, che ci sia qualcuno incaricato di opinare, di vegliare, di decidere per conto nostro». Il buon divulgatore d’economia è dunque, in un certo senso, l’ostetrica di una opinione assieme autonoma e informata. Questo non significa che l’economista debba essere un tecnico «neutrale». Anzi è un uomo «intero», con le sue passioni e i suoi giudizi, prenda pure partito «per quello trai fini, al quale si trova più vicino ma lo faccia apertamente».
L’appartenenza non gli faccia velo, però, rispetto alla più fondamentale verità della sua scienza. Egli deve «ricordare all’uomo politico che scegliere bisogna; e che nessun giudizio sulla convenienza di far qualcosa, di spendere il denaro pubblico per un dato fine può mai essere un giudizio assoluto; ma è sempre un giudizio comparativo; e che in ogni dato momento, posti i mezzi in quel momento esistenti, un voto positivo a favore di un capitolo di qualsiasi bilancio pubblico o privato vuole necessariamente, per definizione, dire un voto negativo contro un altro capitolo».
Da L’Economia – Corriere della Sera, 18 ottobre 2021