Il problema non è l’immigrazione: il problema è la crescita. Noi ragioniamo d’immigrati come se l’alternativa fosse fra il respingerli e l’accoglierli. Come se fosse, cioè, fra due costi per la collettività.
Ma non è affatto detto che l’aumento della popolazione di un Paese, ovvero la conseguenza più concreta dell’immigrazione, debba essere un danno e non invece un beneficio per tutti.
Pensiamo al caso in cui forse davvero si è avuto qualcosa di simile all’«invasione» di un’intero Paese a opera dei migranti.
La popolazione degli Stati Uniti è sestuplicata fra gli anni Quaranta dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento: passò da 17 milioni a 105 milioni di persone. Nel 1920, il 14% dei cittadini americani era nato all’estero; e il 25% aveva genitori che erano nati all’estero.
Questo aumento vertiginoso della popolazione è coinciso con uno straordinario periodo di crescita economica. La torta lievitava, col contributo dei «nuovi americani», e come dividere le fette appariva per quel che è: una questione di second’ordine.
Che un immigrato sia una bocca da sfamare in più è oggi un’idea straordinariamente diffusa. Attenti che vale per i pasdaran della solidarietà quel che vale per gli arcileghisti. Né gli uni né gli altri considerano i migranti potenziali lavoratori, imprenditori, pizzaioli o medici: insomma esseri umani che possono rendersi utili al prossimo. Essi non sarebbero che aspiranti beneficiari del nostro welfare: materia per comprarci il Regno dei Cieli domani, o per garantirci l’inferno nelle periferie oggi.
La spesa pubblica variamente riconducibile all’accoglienza vale circa 12 miliardi.
Com’è noto, al netto degli interessi sul debito, la spesa pubblica italiana è poco meno di 700 miliardi. E’ vero che il peso dello Stato oggi sottopone i ceti produttivi a un prelievo fiscale semplicemente rapinoso. Ma chi si sbraccia sui costi dell’immigrazione per i contribuenti è come un tizio che, quando gli rubano la macchina, non si dà pace per averci rimesso l’arbre magique.
L’algebra dell’immigrazione è più complessa di quanto si creda. Gli stranieri residenti nel nostro Paese sono poco più dell’8% della popolazione. E’ facile dimenticarsene, ma alcuni sono imprenditori.
Le aziende gestite da cittadini nati all’estero sono più di 500 mila, all’incirca l’8% del complesso delle imprese italiane. In una città come Milano, il fenomeno è molto visibile: dalle kebabberie alle imprese edili. Non saranno Google e Facebook, però fanno Pil anche loro. E’ lavoro «rubato agli italiani»? Dal momento che non cresciamo, viene facile pensarlo: nell’Italia di oggi, non c’è nessuna «frontiera» da raggiungere e conquistare. Tuttavia, ci sono mansioni che tanti italiani non vogliono assolvere.
Gli immigrati hanno un diverso costo-opportunità e le svolgono (sono, per esempio, il 20% dei lavoratori delle costruzioni).
Pagano i contributi previdenziali: e, se gli italiani non fanno più figli, starà a loro garantire la sostenibilità del sistema pensionistico. Quando parliamo di nuove imprese, contano le idee: e più persone partecipano al gioco economico, più sono le idee in circolazione.
E’ chiaro che possono essere dei problemi di ordine pubblico connessi all’immigrazione, che non vanno banalizzati.
Ma sono problemi di ordine pubblico, legati alle difficoltà nella produzione di «legge e ordine» in Italia, e non specificamente all’immigrazione.
Nel suo reportage di venerdì scorso, Mario Calabresi ci ha raccontato quanto ci assomiglino i profughi siriani che raggiungono la Grecia. Persone abituate a un certo tenore di vita e a fare progetti, a vivere del proprio, a lavorare duro per migliorare le prospettive della propria famiglia.
La sfida è preservare una società nella quale intelligenza, capacità e voglia di fare possano trovare sbocco. Per loro esattamente come per chi in Italia ci è nato.
Da La Stampa, 19 agosto 2015