La scelta di imporre i dazi da parte dell'amministrazione americana lascia poche alternative all'UE: bisogna aprirsi a nuovi mercati
Al Giardino delle Rose, Trump ha presentato i dazi come una dichiarazione di indipendenza commerciale. Ma già nel luglio 2022, la segretaria del Tesoro degli Stati Uniti disse che le catene di valore dovevano essere più sicure e sotto l’amministrazione Biden sono iniziate le prime attività statunitensi di reshoring.
Nel marzo 2023, Ursula von der Leyen, a proposito delle relazioni UE-Cina, ha evidenziato la necessità di ridurre le dipendenze critiche e diversificare verso partner affidabili.
In un certo senso, anche la Brexit è stata votata con la promessa di un take back control dell’economia.
La pandemia ha acuito la sfiducia verso la globalizzazione facendo credere che uno dei punti deboli nei difficili approvvigionamenti di quel periodo fosse la dipendenza verso fornitori esteri.
Inoltre, la crisi economica post-pandemica ha indotto l’UE e i suoi Stati a sovvenzionare il più grande piano di investimenti mai visto nel sistema europeo.
Dopo l’inizio dell’aggressione russa in Ucraina, le tensioni commerciali latenti nei rapporti internazionali hanno consentito di giustificare e ampliare le strategie protezionistiche e di friendshoring con argomenti di carattere securitario. Si pensi solo alla necessità per alcuni Stati europei di trovare fornitori di energia affidabili e insieme di aumentarne la produzione nel mercato domestico.
Ai presunti motivi economici, si aggiungono – sul fronte nazionalista – le presunte ragioni identitarie, che sono ad esempio alla base della legislazione sul Made in Italy nel nostro paese ma anche del MAGA di J. D. Vance.
L’elemento comune di queste iniziative che, come si può notare, prescindono dal colore politico, è un tentativo di fondo: quello dei governi di riappropriarsi del dominio dei mercati. I dazi di Trump sono quindi l’ultima, più eclatante manifestazione di un tentati vo di rallentamento più multiforme dei commerci globali.
Tuttavia, il trionfo delle ragioni di Stato culminate nel 2 aprile americano non significa né che la globalizza zione abbia fallito né che sia finita, nonostante siano in molti a ritenerlo.
Quello a cui stiamo assistendo non è il suo insuccesso, ma una coercizione pubblica sui processi di scambio. Non si tratta quindi di una sconfitta in sé, ma della deliberata scelta di chi governa di ristabilire il primato dell’azione politica sugli scambi. I motivi addotti, come dimostrano i pochi esempi sopra riportati, possono essere economici, culturali o securitari, ma che siano molteplici e diversi non toglie nulla all’individuazione di una complessa strategia politica di fondo, per la quale lo Stato deve ritornare a dominare le scelte individuali.
Per affermare la fine della globalizzazione, dovremmo inoltre ritenere che queste strategie saranno, nel tempo, sostenibili. Vi sono diversi segnali che suggeriscono il contrario.
Il primo è che le preoccupazioni securitarie e, ora, platealmente protezionistiche sono solo un pezzo di un racconto più grande, nel quale le scelte dei comportamenti di milioni di persone e aziende animano ancora un vivace scambio internazionale, da cui difficilmente vorranno tornare indietro. Ne sono già prova la reazione dei mercati al 2 aprile e i risultati delle Borse, a partire da quella americana. Questa reazione è un ulteriore segnale.
Un terzo segnale è l’orientamento dell’Unione europea e della Cina a rispondere ai dazi di Trump con l’apertura di altri mercati. Si tratta della presa d’atto che gli USA sono un attore dominante a livello globale, ma non l’unico. La chiusura dell’accordo con i paesi del Mercosur sarebbe, in tal senso, molto più che un segnale, ma la cosa giusta da fare. Su questo specifico punto, la Presidente Meloni ha una carta da giocare.