Mal comune

Il prezzo delle case spiega perché chiunque vincerà nei comuni non cambierà troppo la nostra vita

6 Giugno 2016

Il Foglio

Rosamaria Bitetti

Fellow, IBL e ricercatrice in Analisi delle Politiche Pubbliche, Università LUISS Guido Carli

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Domenica i cittadini di diversi comuni verranno chiamati a votare per selezionare le amministrazioni locali. A dar retta alla concitata comunicazione preelettorale, sembrerebbe che siano davanti a una scelta: da una parte qualsiasi parte competenza, onestà e capacità di portare a casa i risultati. Votando per gli altri il mondo crollerà e la città sarà destinata a trasformarsi in un inferno di decadenza, immondizia e corruzione. In Democrazia e ignoranza politica (IBL Libri, 2015), Ilya Somin usa un’affascinante metafora: nel momento del voto gli elettori non assomigliano tanto a saggi calcolatori, ma più a tifosi sportivi, per cui la vittoria della propria squadra dà beneficio psicologico che non viene minimamente intaccato dalle informazioni sulle possibili conseguenze. Ma il fatto che vinca una squadra o un’altra ha effettivamente un impatto sulla qualità della vita del cittadino? Uno studio scientifico di Roberto Basile (economista della Seconda Università di Napoli) e Valerio Filoso (giurista dell’Università Federico II), intitolato “The market value of political partisanship. Quasi-experimental evidente from municipal elections”, dice di no. Vediamo perché.

Lo studio misura empiricamente quale differenza può fare la vittoria della destra o della sinistra nei comuni italiani. Dopotutto, se la scelta è così importante, dobbiamo ipotizzare che l’orientamento politico, anche a livello locale, influenzi il mix di politiche pubbliche realizzate. Ci si può aspettare per esempio che la sinistra offra più servizi rivolti alle fasce più deboli, a costo di maggiore redistribuzione e più tasse. Oppure che un sindaco di destra, invece, sia più attento agli equilibri fiscali, all’emergere di nuove imprese e alla sicurezza. Ma quanto sono in grado di governare bene, di rispondere alle esigenze dei cittadini? Ci sono diversi tentativi di misurare i risultati delle amministrazioni, ma spesso si tratta di misurazioni arbitrarie.

Votare al comune è come tifare allo stadio: ci eccita, ma tanto il risultato non cambia nulla Tentativi, quelli di valutare quantitativamente le scelte politiche, per loro natura complessi. Per esempio, se misuro di quanto è aumentata la quota di rifiuti differenziati o il numero degli autobus, sto già presupponendo che queste siano cose desiderate dai cittadini, e spesso indipendentemente dai loro costi. Così i due ricercatori, Basile e Filoso, hanno pensato di usare come indicatore della qualità della vita cittadina il prezzo delle case. L’ipotesi soggiacente è semplice: se una città è amministrata bene, la migliore offerta di servizi, sicurezza, vita culturale, finanziate tramite un giusto equilibrio fiscale faranno aumentare il valore degli immobili. Più persone vorranno andare a vivere sotto un buon governo, perché gli amministratori pubblici rispondono meglio alle preferenze dei cittadini.

Nel loro studio, gli autori guardano a un database che raccoglie i risultati delle elezioni municipali fra il 2003 e il 2011, e i prezzi immobiliari differenziati per tipologia d’uso e localizzazione. Analizzandoli con un metodo di regressione discontinua, non trovano nessuna evidenza statisticamente significativa di una differenza sistematica: se il prezzo delle case riflette la migliore qualità dell’amministrazione locale, non c’è differenza fra destra e sinistra. Una delle possibili spiegazioni è quella che, a livello locale, le politiche di schieramenti opposti siano in realtà identiche.

E quindi alla fine ha ragione Somin, sulla partigianeria politica: siamo tutti tifosi. Il voto di domenica è un po’ come una partita: il fatto che segni Totti o Candreva, Higuain o Dybala tocca il cuore di molti. Può rovinarci la giornata. Però, se perde la nostra squadra o il partito del cuore, a conti fatti la nostra vita non cambierà poi molto.

Da Il Foglio, 4 giugno 2016

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