25 Aprile 2022
L'osservatore romano
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Nel 1923 la Riforma Gentile introduce l’insegnamento dell’economia nelle scuole superiori. In quell’occasione, Luigi Einaudi scrive che mentre la lettura di certi compendi d’economia non produrrebbe, fra i più giovani, «alcun frutto se non di noia», al contrario «chi sapesse far penetrare i giovani nello spirito dei capitoli economici dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni» avrebbe ben altro esito. «Essere in grado di far gustare quei brani immortali vuol dire aver penetrato a fondo nello spirito della scienza ed avere veramente la sensibilità economica della storia e della vita».
In Italia la lettura di Manzoni è stata pietanza obbligata per generazioni di quella che pomposamente chiamiamo «classe dirigente». Eppure pochissimi hanno ravvisato nelle pagine dei Promessi sposi «uno dei migliori trattati di economia politica che siano mai stati scritti». La storia di Renzo e Lucia è materiale da interrogazione, ma se ne ricorda grosso modo il canovaccio. Nel 1961, sempre Einaudi rifletterà su come il «capitolo dodicesimo dei Promessi Sposi (…) come l’altro sulla peste sia saltato di piè pari dagli scolari nel ginnasio».
Questi due capitoli non sono citati assieme per caso. Comprendere i fenomeni sociali è difficile: le cause sono remote, difficilmente riconducibili a singoli eventi, e men che meno a singole persone. Ma siamo tutti, quasi istintivamente, tentati di prendere la strada opposta: di cercare mani visibili e di identificarne i proprietari.
Per il pane che manca, come per la peste, Manzoni spiega come scatti lo stesso meccanismo psicologico: si desidera un colpevole, si cerca l’untore. I milanesi sanno bene che i raccolti sono stati sfavorevoli e come se non bastasse c’è stata la guerra di successione di Mantova e sono calati i lanzichenecchi. Eppure dimenticano queste cause lontane, per immaginare che «ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo».
Sono supposizioni che «non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza». La folla chiede a gran voce provvedimenti, pronta a tutto fuorché ad accettare un rincaro che, spiega Manzoni, sarebbe «doloroso ma salutevole». Salutevole perché la soluzione alla crisi sarebbe proprio un’importazione sufficiente di granaglie estere, ostacolata dalle «leggi stesse tendenti a produrre e mantenere il prezzo basso». Al contrario, il calmiere abbassa il prezzo del pane oggi, per garantirci che non se ne sforni domani.
Il bisogno popolare di nessi causali semplici e lineari, il bisogno di credere agli untori, alimenta la domanda di interventi risolutivi, salvifici, immediati. Poco importa che non funzionino e che rischino di peggiorare la situazione. Messo su un piedistallo, il governante è il primo a credere al suo mito. Il guaio del cancelliere Antonio Ferrer non sta nell’aver capito che «l’essere il pane a un prezzo giusto è per sé una cosa molto desiderabile» ma nell’aver pensato «che un suo ordine potesse bastare a produrla». Quanto costa imparare che «tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione».
Per Manzoni il problema non sta nell’ignoranza del popolino, in attesa di un “rischiaramento” di là da venire. Nella Storia della colonna infame, del resto, egli rifiuta d’incolpare «un effetto de’ tempi e delle circostanze», ovvero la semplice ignoranza dei tempi, puntando invece l’attenzione verso «quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa». L’ignoranza non è una scusa per sgravarsi della responsabilità individuale. L’invito è semmai a considerare gli esseri umani come sono, coi bias cognitivi (diremmo oggi) che si portano appresso. L’attaccamento a poche idee e storte non è solo delle moltitudini arrabbiate, ma anche di donna Prassede e di don Ferrante.
I potenti non fanno una gran figura nel romanzo manzoniano. Del resto è la storia di un’operaia e di un filatore di seta, quest’ultimo destinato a diventare un piccolo imprenditore. Il più bel romanzo storico di sempre guarda i grandi uomini col cannocchiale, l’autore si è scelto per protagonisti due esponenti del “popolo dei produttori” e già questo suggerisce che la società e la storia non obbediscano a grandi progetti ma siano la somma di un’infinità di scelte e di esperienze. Bene farebbero i politici a essere prudenti, prima di metter mano con tanta baldanza a cose che non capiscono, né loro né i loro consiglieri. Per capire i rischi di manomettere per eccesso di zelo i sistemi complessi, non c’è lettura migliore.
da L’Osservatore Romano, 25 aprile 2022