6 Dicembre 2021
La lettura-Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Prima di ricevere il Nobel, a Stoccolma Mario Vargas Llosa raduna gli amici che lo accompagnano e improvvisa un brindisi a Borges. «Per chiedergli scusa di aver ricevuto, io, un premio che avrebbe dovuto ottenere lui molto tempo prima». I Nobel debbono inviare, una volta l’anno, i suggerimenti per i prossimi premiati. «Più volte ho raccomandato uno scrittore italiano che stimo molto, Claudio Magris, e continuo a sperare che possa vincerlo».
I dieci episodi della serie televisiva Mario Vargas Llosa. Una vida en palabras sono sassolini seminati per aiutarci a seguirne il percorso. Il documentario, che è già andato in onda su Tv Azteca in Messico e speriamo atterri presto su una piattaforma streaming, vede l’autore ragionare col figlio Álvaro. La vita di parole di Mario Vargas Llosa si trasforma in una serie di immagini: dalla casa ad Arequipa nella quale nacque nel 1936, all’appartamento parigino in cui scrisse Conversazione nella cattedrale (1969), all’indirizzo di New York dove la telefonata dell’Accademia di Svezia lo sorprese, già al lavoro, alle 5 del mattino.
Vargas Llosa ha sempre detto di essersi scoperto scrittore «latinoamericano» con la distanza, una volta in Europa. L’elemento nomadico, quest’ansia di spostarsi, aiuta a spiegare l’uomo. Ad Arequipa, Mario passò solo il primo anno di vita, poi la famiglia, capeggiata dal nonno Pedro, si spostò in Bolivia. Il padre, Ernesto Vargas Maldonado, aveva avuto una relazione con una tedesca e si era separato dalla moglie prima della nascita di suo figlio. I Llosa, per proteggere il bambino, gli avevano fatto intendere che Ernesto fosse morto. Per nove anni suo padre è una foto incorniciata. Nel 1946 si reincarna in un uomo reale e s’impone al piccolo Mario, strappandolo alla tranquillità della famiglia materna. «Perdetti l’innocenza e scoprii la solitudine, l’autorità, la vita adulta, la paura».
La risposta a una figura paterna oppressiva è la scoperta della lettura. Sin dal principio, per Vargas Llosa, «leggere è protestare contro le ingiustizie», come dirà nella lezione Nobel. A 14 anni, Mario finisce al Colegio Militar Leoncio Prado, dove per la prima volta conosce una brutalità diversa: la prevaricazione costante del potere. Ma qui s’imbatte anche nell’arcobaleno di classi e abitudini di un Perù che va ben oltre il suo ambiente familiare alto-borghese. Di qui vengono le atmosfere de La città e i cani (1963), il romanzo d’esordio, pubblicato quando ormai si trova in Francia. L’Europa era stato il suo sogno: c’era arrivato con la prima moglie, Julia e ci rimase con Patricia, la madre dei suoi figli. Barcellona, Parigi, Londra, oggi Madrid. Dietro ogni trasloco, ci spiega Álvaro Vargas Llosa, s’indovina un bisogno di avventura: «Mio padre l’avventura non l’ha cercata solo nei libri, ma anche nella vita. Ha sempre avuto bisogno di vivere la vita come se fosse un romanzo».
Per esempio quando si candida alle presidenziali in Perù. Un’avventura nata per caso: aveva scritto contro la nazionalizzazione delle assicurazioni e delle banche tentata dal presidente Alan García, si era trovato a capo di un movimento convinto che solo l’economia di mercato avrebbe consentito ai poveri di affrancarsi dalla miseria. Perse contro un candidato venuto dal nulla, Alberto Fujimori. Quando Álvaro lo chiama, per dirgli che è contro di lui che andrà al ballottaggio, Mario non sa neanche che c’era pure quel nome sulla scheda. Fujimori farà un autogolpe instaurando una dittatura, sia pure di breve durata, durante la quale Vargas Llosa prenderà la cittadinanza spagnola.
«Di quel movimento però», spiega Álvaro, «un’eredità è rimasta, in riforme di una certa ispirazione liberista portate avanti da diversi governi, che al Perù hanno dato anni di forte crescita». Attorno al «neoliberismo» di Vargas Llosa è sorta tutta una letteratura, naturalmente critica. Le conversazioni con Álvaro servono anche a spiegare che Mario è un uomo solo, il romanziere e l’intellettuale liberale assieme, non due abitanti di pianeti diversi. «La strada fatta da mio padre è un po’ quella di una generazione, dall’utopia socialista al liberalismo. Ma l’apprendistato della libertà è un tema centrale anche della sua opera».
Di recente Mario Vargas Llosa è stato eletto «Immortale di Francia», il primo a non aver mai pubblicato in francese. A un liberale, all’Académie Française non può che essere assegnato lo scranno 18, lo stesso di Alexis de Tocqueville.
da La Lettura – Corriere della Sera, 6 dicembre 2021