Masterchef e la cultura del merito

Il programma è approdato in Italia negli anni più duri della crisi, consegnando ai telespettatori un messaggio inaspettatamente positivo

5 Marzo 2015

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

I problemi dell’Italia sono tanti, ma uno di quelli che più la danneggiano è la scarsa diffusione della «cultura della concorrenza». Per funzionare, il libero mercato ha bisogno di molte cose. Una di queste è una cultura che non demonizzi il profitto e il successo, ma sappia che l’uno e l’altro possono essere l’esito di una leale competizione.

Per diffondere questa cultura nel nostro Paese, hanno fatto probabilmente di più i talent show che decenni di convegni e vent’anni di accorate perorazioni dell’Autorità Antitrust. Prendete Masterchef, di cui Striscia la notizia ha messo in dubbio l’integrità.
E’ il più complicato dei talent show. La musica, la televisione te la fa sentire. Le modelle, te le fa ammirare. Per immaginare sapori e profumi del cibo, il telespettatore deve fare appello a tutta la sua fantasia.

Il cibo è di gran moda, e forse una singolar tenzone ai fornelli non poteva che incollarci davanti alla tv a milioni. Forse, però, contano anche le dinamiche della competizione. In quella cucina, la fortuna non è assente. Esattamente come per l’avvocato più bravo, per l’imprenditore più visionario, per l’atleta più meticolosamente preparato, ci sono giornate migliori e giornate peggiori. Tutti sbagliano: alcuni di più, alcuni di meno. I cuochi di Masterchef hanno tutti talento, eppure i loro talenti sono diversi e diversamente emergono quando c’è da disossare un tacchino o da preparare una crema. La materia prima ne condiziona le scelte. La creatività è un attributo individuale, però da sola non basta: servono abnegazione, capacità di applicarsi, grinta. Bisogna imparare anche a lavorare con altri e a coordinarne il lavoro. Quante volte abbiamo visto, nelle prove in esterna, vincere squadre composte da cuochi magari meno brillanti, ma capaci di valorizzare competenze e sensibilità gli uni degli altri?

Il presupposto di tutto, ciò che rende la trasmissione godibile, è l’accettazione di un dato di fatto: vincerà uno solo, e magari non sarà quello che ci piace di più, magari non sarà neanche il «migliore» in senso assoluto (posto che esista, il migliore in senso assoluto), ma sarà quello che nella gara decisiva ha fatto il piatto più apprezzato dai tre giudici. Masterchef è approdato in Italia negli anni più duri della crisi, consegnando ai telespettatori un messaggio inaspettatamente positivo. Per una volta, in tv non si esibisce una mediocrità orgogliosa di sé, e neppure si cerca riparo alle proprie disgrazie confidando in un caso benevolo. Si afferma invece, esplicitamente, che il talento ce la può fare, che ogni tanto la fortuna aiuta gli audaci, che al successo si può arrivare con le proprie forze.

«Striscia la notizia», svelando anzitempo il vincitore del talent ma soprattutto insinuando il dubbio che uno dei concorrenti (fra l’altro, un ragazzo di vent’anni di bravura strepitosa) abbia barato per parteciparvi, incarna una cultura diversa. E’ la cultura del sospetto, di cui noi italiani siamo generosamente dotati. Ora, l’allunaggio di Neil Armstrong non è stato registrato in uno studio televisivo, a Kennedy non ha sparato un agente della scorta, il Bilderberg organizza conferenze e non disegna il futuro del pianeta. Tuttavia, ogni tanto le verità ufficiali sono davvero dei mascheramenti, i regolatori producono norme fatte per beneficiare questa o quell’impresa, gli accordi politici che contano sono firmati nell’ombra. Dubitare è saggio, e lo è particolarmente quando si sospetta dei più strombazzati trionfi dei potenti.

Una coabitazione fra queste due culture avrebbe aspetti sommamente utili. Perché la gara concorrenziale si compia nel modo migliore, bisogna stare attenti che l’arbitrio non faccia comunella con un concorrente o con l’altro. Però se la cultura del sospetto avvolge tutto, se lo sport nazionale è negare la stessa possibilità che successo e profitto possano essere meritati, se non c’è affermazione del talento individuale dietro la quale non si nasconda l’aiutino di un potente, allora un Paese si blocca. Come fa a crescere, come fa a intraprendere, una società in cui il successo dimostra di per sé l’indegnità morale di chi lo ottiene?

Da La Stampa, 5 marzo 2015
Twitter: @amingardi

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